È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell'anima di Bonaria Urrai.
L'esperienza di lettura di questo piccolo romanzo pregno di significati - col quale l'autrice vinse anche il Premio Campiello nel 2010 - è una di quelle che difficilmente dimentichi.
Dopo aver perdonato alla Murgia l'ultimo terzo non propriamente riuscito a mio parere, si può ben dire che nel suo insieme Accabadora sia una storia da conoscere.
Questo piccolo romanzo di circa 160 pagine racconta di un tipo di adozione diffusa in Sardegna, dove la storia è ambientata: Maria, quarta figlia di una vedova in condizioni economiche precarie, viene data come "figlia d'anima" alla sarta Bonaria Urrai, donna di mezza età che svolge il ruolo di "accabadora".
Bonaria richiede la bambina a sua madre dopo averla vista rubacchiare in un negozio, leggendo nelle movenze e nella reazione della piccola tutta la sua solitudine e la sua condizione di "figlia di troppo". Bonaria è la madre adottiva, ma anche una "madre universale" proprio per il ruolo che riveste.
"Figli dell'anima".
Per capire cosa rappresenti e quale valore abbia l'affidamento di un figlio a un'altra donna, dobbiamo gettare uno sguardo attento su certe piccole comunità esistenti un po' ovunque. Dobbiamo guardarle senza lasciarci ingannare dal disappunto, perché è del tutto normale che il pensiero di disfarsi di un figlio per lasciare che un'altra donna lo allevi susciti un certo dissenso.
L'antropologia culturale, disciplina che ebbi la fortuna di studiare nei miei anni universitari, svela tante usanze simili a questa, tante del tutto lontane dalla consuetudine, ciascuna con un preciso scopo, legato alla sopravvivenza e alla conservazione di uno status quo molto consolidato.
I bambini delle piccole comunità vivono in seno alle proprie famiglie ma può capitare che siano come "condivisi", laddove particolari condizioni lo ritengano indispensabile. Non si trattava di vere e proprie adozioni né di affidamento, giacché veniva esclusa la temporaneità di questa accoglienza.
Maria diventa la bambina accolta da Bonaria, ma non smette di appartenere alla propria famiglia d'origine, continua a rapportarsi ad essa, è richiesta come aiuto durante le festività, ecc. L'accoglienza in un'altra famiglia quindi non doveva essere traumatica, il legame con le origini non veniva reciso. I bambini accolti per affiliazione partecipavano ai lavori domestici, davano un valido aiuto nei campi, accorrevano nelle famiglie durante un lutto o un evento di festa.
Altro importante punto, i "figli dell'anima" ricevevano l'eredità dei propri genitori putativi, erano eredi di usanze e beni. Maria, pertanto, è destinata a entrare in possesso dei beni di Bonaria, e in certo senso è la custode di quello che la donna rappresenta in seno alla comunità.
Su matzolu, il martello adoperato dalle accabadore |
L'accabadora.
Chi è realmente Bonaria? Quale ruolo svolge dismessi i panni di sarta del paese? Dove si reca avvolta nel suo scialle in piena notte?
Qui ci addentriamo in una delle usanze più misteriose di queste comunità, di cui esistono racconti tramandati e sussurrati a fior di labbra. Le accabadore sono esistite, forse esistono ancora, ma non ci sono prove certe a riguardo.
L'etimologia del nome ci riporta allo spagnolo e al sardo antico: acabar significa "terminare", s'acabbu è "la fine". La figura ha tratti inquietanti, ci sono musei in Gallura che mostrano il suo strumento di lavoro: un martello di legno.
L'accabadora si reca nottetempo al capezzale di un morente e... potete immaginare cosa faccia (Bonaria adopera invece un cuscino col quale soffoca la vittima).
Si tratta di una pratica antichissima di eutanasia, la morte indotta come gesto estremo di pietà e compassione verso un corpo straziato dalla sofferenza e senza speranza.
C'è tutta una compagine di studi che nega l'esistenza di questa figura, che parla di credulità popolare, di confusione fra antiche e nuove pratiche. Stupisce, ad esempio, che la chiesa non abbia mai denunciato questo tipo di usanze, il che farebbe pensare che non siano mai effettivamente esistite.
Di certo, dovette esistere un ruolo molto vicino a questo, scaturito dalla necessità, se pensiamo alla condizione di povertà di molte famiglie di queste comunità. Assistere un malato terminale costituiva uno sforzo per molti insostenibile.
Michela Murgia |
della piccola Maria e direi in particolare attraverso il rivelarsi della stessa Bonaria, che non ammette menzogna, che elegge sempre la verità a sostegno di ogni azione.
Bonaria è l'accabadora, ma dietro la scorza dura c'è la sua difesa della pratica come di qualcosa di sacro, incarnando "l'ultima madre", colei che toglie la vita poiché l'anima vi resta disperatamente aggrappata. L'accabadora, nel completare il ciclo vita-morte, è l'eletta dalla comunità. Rispettata e onorata, perché vicina al sacro, ma più propriamente al femminino sacro.
Maria ignora queste pratiche, così come le ignora Andrìa, entrambi di ultima generazione, ragazzi che sono parte di questo sistema antico, nel quale il segreto dell'accabadora è uno di quelli che tutti conoscono ma del quale non si può né si deve parlare.
Non posso svelare nei dettagli, ma la svolta che il lettore attende, la rivelazione, è accompagnata da un prosieguo non proprio coerente, un segmento di vita altrove che copre un arco temporale di due anni.
Questa parte sembra come slegata dalla narrazione, cosa non proprio piacevole. Può capitare di imbatterci in un romanzo in cui, ad un certo punto, un cambiamento di rotta spiazza il lettore. Non si tratta propriamente di quella cosa tanto rara quanto geniale che è la "cadenza d'inganno", di cui ho scritto qui, quanto, in questo specifico caso, di una svolta inevitabile quanto non riuscita.
La mia impressione è che Murgia abbia affrettato il processo di agnizione, senza donare al testo quell'attenzione verso i dettagli che rende tutta la prima parte davvero molto ben scritta.
Il finale è sfocato, come sospeso, anche su quelle ultime righe, nel grande momento della verità e dell'accettazione, Maria a mio parere poteva diventare di più.
Bonaria, Maria, Morgana.
Murgia racconta un pezzo della sua terra, vince perché è materia che le appartiene, eppure svela durante un'intervista la sua vera fonte di ispirazione. Qualcosa che non ci saremmo mai aspettati.
Il romanzo più significativo per Michela Murgia, quello che le ha cambiato la percezione del mondo è un romanzo fantasy, Le nebbie di Avalon, di Marion Zimmer Bradley. In questo affascinante intreccio, il nucleo narrativo è il punto di vista femminile dinanzi alle vicende della nota saga medievale britannica, il ciclo arturiano.
In particolare, attorno alla maga Morgana, che apprende le sue arti magiche da sua zia Viviana, Dama del Lago, l'interesse dell'autrice è tale da farle intraprendere un viaggio di ricerca sugli antichi miti e le leggende, sul passaggio dal matriarcato al patriarcato. Non mi dilungo, il discorso è complesso.
Basti insomma sapere che Bonaria e Maria sono nate da una forte suggestione, dalla lettura di un romanzo ucronico sugli antichi druidi, sul potere del femminino sacro. Direi che ha del fascino.
Dal romanzo è stato tratto uno spettacolo teatrale andato in scena nel 2018, che Murgia lodò come "ampliamento" della storia e non come "riduzione". C'è un film su questa figura, oltre a diversi documentari nei quali non mancano gli approfondimenti e i chiarimenti.
Monica Piseddu in "Accabadora", 2018 |
Avete letto questo romanzo? Vi affascina il mondo del sacro legato al principio femminile?
Mi fa piacere che abbiamo impressioni simili. Storia interessantissima, prima parte affascinante ma seconda metà del romanzo dispersiva e poco chiara. Con quelle premesse mi aspettavo uno svolgimento molto più coinvolgente e invece alla fine mi ha lasciato un po' insoddisfatto...
RispondiEliminaForse frutto di tagli voluti dall'editore, ma Michela Murgia sa il fatto suo, quindi penso sia stata una sua scelta. Comunque romanzo da leggere, successo strameritato. Mi ha ricordato certe movenze e usanze tipicamente calabre.
EliminaCosì come mi ha riportato a lezioni universitarie in cui impari che c'è un mondo sommerso di usi e folklore ancora molto radicati in certe piccole comunità. La morte come condizione irrefutabile, anche. Bisognerebbe dedicare parte dell'istruzione alla conoscenza di queste usanze, che svelano molto del passato e dell'identità culturale di appartenenza.
Mi sono procurata questo libro poco tempo fa, ma lo devo ancora leggere. Quello che mi ha spinta a cercare un romanzo di Michela Murgia è stato proprio averla ascoltata parlare di questa riflessione sul femminile innescata dalla figura di Morgana, al Festivaletteratura. In generale, ogni volta che seguo un suo intervento, apro gli occhi su aspetti della percezione delle donne e della loro "aura" a cui mai avrei pensato. Ho quindi aspettative molto elevate, spero che i difetti di cui parli non incidano troppo sull'impressione globale.
RispondiEliminaC'è molto della Murgia che amiamo ascoltare in questo libro. In quei due terzi imperdibili c'è tutta la forza di quel femminile che anche nelle piccole realtà sa farsi strada e in qualche modo rappresenta una autodeterminazione.
EliminaMaria e Bonaria esprimono due modi differenti di questo "potere" femminile. Sarei curiosa di leggerne una tua recensione. :)
Un libro e una scrittrice che, a suo modo, è riuscita a dare qualcosa di bello su cui riflettere e che ha sempre un seguito. Molto brava, combattiva e convincente in tante cose che fa
RispondiEliminaHo imparato a conoscere Michela Murgia qualche anno fa, quando aveva i suoi preziosi dieci minuti su Raitre nella trasmissione di Augias (ora condotta da un altro) e a dirla tutta mi piacque in particolare la pungente recensione su un libro di Volo. Si trattava di un "libroide", un libro che all'interno non aveva pagine scritte ma pseudoaforismi et similia. Lo stroncò senza pietà alcuna, con una punta di ironia "colta". Di Murgia mi piace proprio la dialettica. È capace di tenere un discorso incollandoti alla sedia. Molto particolare.
EliminaLibro bellissimo che fa entrare in una dimensione oscura, quelle delle figlie di anime e dell'arte della morte.
RispondiEliminaUn mix tra sacro e profano che però va letto. Va letto senza paraocchi anzi, con lo sguardo ben aperto su tradizioni arcaiche e riti ancestrali.
Sì, forse Maria meritava di diventare qualcosa di più, forse l'ultima parte del libro è meno ricca di emozioni intime della prima, però, è un libro che merita una lettura attenta.
Mi è piaciuto oltre misura
Brava, Patty, mi piace questo entusiasmo. Ciò che è irrinunciabile in questo piccolo romanzo è proprio quella dimensione oscura, quel realismo delle strade e dei campi, quell'espressione dei volti, l'onestà di aver restituito un pezzetto di Sardegna come sapeva fare assai bene Deledda.
EliminaA me non è piaciuto. C’è da dire che non amo molto la Murgia scrittrice: lei ha una bravura indubbia, ma spesso la sua scrittura è artificiosa, quasi innaturale. Ho una pecca che, però, devo confessare: di Accabadora non ricordo nulla, solo la figura di questa donna portatrice di morte e la sensazione sgradevole che mi ha lasciato, dunque non saprei più approfondire la mia critica negativa. Poi ho letto Chirù dell’autrice e non mi è dispiaciuto, ma ho ritrovato quel tipo di scrittura che non prediligo.
RispondiEliminaMi ero imbattuta tempo fa in questa scrittura "artificiosa" di Murgia, ma non ricordo di che romanzo si trattasse. Non mi era piaciuta per nulla quella citazione. Qui invece non ho trovato traccia di questo, anzi. Mi ha ricordato uno di quei romanzi del migliore realismo, piuttosto.
EliminaIl romanzo è piaciuto molto anche a me, qualche anno fa, anche se non conservo ricordi chiari della lettura.
RispondiEliminaNon so se il mio ricordo di questa storia resterà nitido. Forse ricorderò Bonaria in particolare, e il fatto che avrei voluto che Maria ne fosse la sua erede vera e propria. Se non avesse avuto quella fretta di concludere...
EliminaNon ho mai letto questo romanzo, ma mi ispira parecchio. Tra l'altro, questo genere di affidamento dei figli trova esempi in molte culture.
RispondiEliminaSì, ho sentito esempi simili anche in Sicilia e in Calabria, in effetti.
EliminaSono affascinata da questa tua lettura, non conoscevo questa pratica, distante come sono da quelle terre e da quegli studi, poiché quel ruolo nella società è talmente importante, lo è ancora, che merita studio e approfondimento. Sul ruolo di figlia adottiva non posso dire, ma questa tuo post mi ha lasciata con un groppo in gola e non so perchè
RispondiEliminaIl modo in cui Maria viene a tutti gli effetti affidata a Bonaria, senza sofferenza alcuna, senza il dolore del distacco, colpisce non poco. C'è quella bellissima scena della bambina che fa torte di fango e questa donna di mezza età che la chiama perché vada a lei. Toccante.
EliminaDevo ammettere che questo romanzo mi ha sempre incuriosito ma non l'ho ancora letto. Pensa che io la figura di una "figlia dell'anima" ce l'ho proprio in famiglia, mia zia, la sorella più grande di mia madre non aveva avuto figli e sua sorella più piccola aveva tre figlie, la più grande delle figlie visse sempre a casa di mia zia, sapeva chi erano i suoi genitori, ma lei trattava la zia come se fosse sua madre e suo marito come un padre. Mia madre mi spiegò che mia cugina andò a vivere con gli zii perché l'altra zia non poteva permettersi di mantenere tre figlie. In realtà le due sorelle (le mie zie, sorelle di mia madre) erano molto unite e per me erano una sola famiglia.
RispondiEliminaCredo che si tratti di cose che alla lunga non si dimenticano. Ti riporto l'esperienza di una cugina siciliana. Da piccola e fino a tutta l'adolescenza fu affidata a degli zii che le permisero di portare a termine gli studi classici. Devo dire che questa cugina rientrò in famiglia diversi anni dopo e mi parve un po' "distante" da sua madre, mentre era legatissima a questi zii.
EliminaStavo pensando che in popolazioni con gruppi numerosi, non dev'essere tanto strano allevare in figli in maniera "comunitaria". Mi pare che ci sia un proverbio africano che dice: "Per crescere un bambino ci vuole un villaggio", che come concetto ha il suo fascino. Non ci sono strappi dovuti a separazioni.
RispondiEliminaSul fatto di un libro che delude nell'ultima parte, mi viene in mente "La donna in bianco" di Wilkie Collins, romanzone quasi soapoperistico diviso in 6 volumi, di cui i primi 4 (forse anche 5) avvincentissimi; mi erano piaciuti proprio tanto, ma poi il finale della storia si è sfilacciato, è andato nell'assurdo, poco interessante, deludente... uff, ci ero rimasta veramente male.
E mi aveva un po' deluso, anche se non forse ai livelli del libro di Collins, la terza parte del libro di Asimov "Neanche gli dei". Le prime due le avevo trovate bellissime, in modi molto diversi, ma la terza meh. Che poi erano tre aspetti della stessa storia, ma l'ultimo mi sembrava incastrarsi pure malamente.
In molte culture i bambini sono visti e considerati, e allevati, come appartenenti alla comunità. Mi viene in mente l'educazione comunitaria praticata fra i nativi americani (almeno un tempo, ora vivono in riserve) e in certe civiltà del Pacifico. Non ultimi i villaggi africani dove si praticano diverse attività di "sussistenza".
EliminaEh sì, si rimane maluccio quando un romanzo si rarefà sul finale. Comunque, nonostante questo, secondo me "Accabadora" è da leggere.
Questo è il tipico romanzo che è praticamente da sempre sulla lista delle cose da leggere e lì rimane a tempo indeterminato. Devo dire che neppure il tuo bel post ha sciolto il dubbio. Ho letto parecchio di antropologia sarda, il ruolo della accabradora è studiato e dibattuto e ricordo anche un bel fumetto sull'argomento, quindi, non so, ho paura che il romanzo poi si riveli una delusione e del resto anche il tuo post rivela che il libro ha qualche ombra...
RispondiEliminaSenza indugio, leggilo se ti va. Murgia conosce quel mondo, ciò è innegabilmente un valore aggiunto. L'accabadora è una figura che va approfondita, questo romanzo la racconta con uno stile che mi è piaciuto, verista.
EliminaPurtroppo ho sempre in mente la parodia di Virginia Raffaele, non riuscire mai a leggere un suo manoscritto!
RispondiEliminaE fai male, Murgia è una brava scrittrice.
EliminaDi Michela Murgia ho letto solo "Il mondo deve sapere" dopo aver visto il film "Tutta la vita davanti" con Isabella Ragonese e Sabrina Ferrilli. Mi è piaciuto di più il film, perché aveva una linearità nella narrazione che non appartiene al libro, che del resto è la stampa dei post del blog dove originariamente aveva pubblicato le sue riflessioni su quel lavoro in call center.
RispondiEliminaAvevo intenzione di leggere altro di lei, per capire com'è davvero la sua scrittura, ma nel corso di quest'ultimo anno mi sono capitati alla vista dei suoi post pubblici che... mi hanno ricordato il personaggio di Sabrina Ferrilli proprio nel film "Tutta la vita davanti". E allora mi è proprio passata la voglia di investire il mio tempo a leggerla.
Non nego che Murgia sia stata a dir poco caustica in tantissimi suoi interventi su Fb, ma faccio salva la sua intelligenza e il suo acume su tantissimi aspetti di questa società moderna. Non condivido tutto ma sotto molti aspetti c'è da imparare da una come lei. Io l'ho "conosciuta" attraverso Buon vicinato, quella deliziosa rubrica quotidiana che teneva con Chiara Valerio durante il lockdown e continuo a seguirla recuperando decine di interventi su You Tube.
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