Enzo ci ha lasciato proprio oggi, giovedì 26 settembre 2019, dopo una grave complicazione renale.
Questa l'intervista che gli feci nel marzo 2018.
Che la terra ti sia lieve, amico mio...
___________________
Conoscersi grazie alla blog-sfera è piacevole. Ho avuto modo di incontrare virtualmente belle persone, con cui condivido pressoché abitualmente idee, opinioni, gusti. Perché non dedicare occasionalmente un po' di spazio a qualcuno di voi? Un'idea non molto originale che però mi intriga e oggi comincio con
Vincenzo Iacoponi.
Ho conosciuto virtualmente Enzo di recente, ma è bastato poco per avvertire la sensazione di conoscerlo da sempre.
Si diletta di scrittura, casualmente ho scoperto che si è occupato di scenografia, che ha una vena artistica non indifferente, che vive in Germania al centro di una famiglia grande e molto unita.
Enzo ha il pregio di essere diretto, schietto e senza filtri. Sulle prime può anche spiazzare, poi avverti che è un uomo buono, perbene, fino a quando viene fuori che è uno di quei vecchi che valgono, e tanto.
Di solito la parola vecchio è tabù. Come se di invecchiare ci si dovesse vergognare. Enzo porta i suoi anni con la vivacità intellettuale di un trentenne. Ha decine di amici blogger che lo stimano e gli vogliono bene, ultimamente ci ha fatto pure prendere un bello spavento perché è andato sotto i ferri, poi è tornato ed è stato un tripudio collettivo. Enzo è un pezzetto di blog-sfera che vale, ecco perché l'ho intervistato, oltre al fatto che per molti aspetti mi ricorda mio padre, che nacque un anno dopo di lui e non ho più la fortuna di avere accanto.
Qui sopra, Enzo all'età di 22 anni con la sua amatissima nipotina in braccio.
Grazie per aver accettato di farti intervistare. Cominciamo da questo: un evento storico importante dell'anno in cui sei nato.
Potrei risponderti con una battuta che l'evento più importante storicamente del 1934 avvenne il 9 di febbraio, giorno in cui io nacqui. Non lo farò. Annulla la risposta.
Mi sembra che iniziassero i preparativi per quella angosciosa campagna di Abissinia, che il Maresciallo Graziani - se non erro grossolanamente - condusse barbaramente con uso di gas asfissianti ("tanto sono solo negracci puzzolenti") e di cui Mussolini tanto vanto ne trasse insignendo Vittorio Emanuele III del titolo di Imperatore di Abissinia, appunto; titolo che "sciaboletta" accettò di buon cuore.
Da qui le sanzioni, una barzelletta, messe per far vedere che qualcosa il mondo stava facendo, ma in quel periodo Mussolini aveva seguaci dappertutto, financo negli Stati Uniti.
Altro non so, e mi pare abbastanza.
|
Mussolini e Vittorio Emanuele III |
Hai ricordi della guerra?
Ne ho un'infinità.
Il soggiorno coatto a Valentano per due anni da "sfollato" con la gente del paese che ci guardava come fossimo appestati, e pensare che mia nonna Michelina Viti, la mamma di mia mamma, era nata in quel paese ed aveva ancora in vita la sorella maggiore.
La ritirata delle truppe tedesche che si portarono via tutti i maiali, le galline e gli asini, che erano l'unico mezzo di trasporto per quei poveri contadini. Gli uomini tutti nascosti per non venir deportati (servivano per i lavori, per riassettare strade), le prime case del paese bruciate e la minaccia di bruciare tutto il paese se non venivano fuori gli uomini per ricoprire due enormi buche fatte da bombe aeree americane. Allora il Podestà, l'Arciprete, le donne più giovani e noi ragazzi a lavorare per rifare sta strada con i tedeschi col mitra che ci tenevano sotto tiro e non ci facevano fare nemmeno la pipì a noi ragazzini.
L'arrivo degli americani dopo quattro giorni e tre notti passate in un cantinone comunale senza quasi toccare cibo perché piovevano granate. A noi morti di fame tiravano caramelle, sigarette e gomme da masticare. Finché non capirono e misero su in mezz'ora un'enorme cucina da campo per dar da mangiare ad un migliaio di persone esauste. Una minestrina che conteneva tantissime vitamine e sostanze e carne congelata... carne, capisci, che noi non mangiavamo da oltre un anno, e loro la buttavano. E pane bianco, niveo, non nero come quello dei crucchi.
Ma quello che non dimenticherò mai è il primo bombardamento di Civitavecchia, il 14 maggio del 1943. Il porto era pieno di soldati che si imbarcavano per andare in Libia. C'erano sette navi da carico e in rada quattro cacciatorpediniere di scorta. Alle 15 e qualche minuto io stavo affacciato alla finestra della camera da letto dei miei a chiacchierare con i miei amici di sotto nel cortile. C'era qualcosa di strano nel cielo. Cicale ed uccelli cantavano sugli alberi. Di colpo smisero tutti e fu un silenzio irreale.
Io alzai la testa e vidi scendere in diagonale (lo vedo ancora adesso) un chicco di grano nero, veniva giù velocissimo. Un attimo dopo un'esplosione enorme che non avevo mai sentita e tutti gli uccelli si alzarono in volo. Il porto era a non più di un chilometro in linea d'aria da casa mia.
Dopo per dodici minuti fu l'inferno. Eravamo tutti in ginocchio nel corridoio che era al centro dell'appartamento e le mura dondolavano come quando si sta in barca con onde grandi e grosse. Scoppiava tutto ed io vedevo sul pavimento della cucina passare velocissime le ombre degli aerei da caccia che mitragliavano tutto. Anche casa nostra. Mia nonna era rimasta sola sotto la finestra della cucina e mio padre corse barcollando e tenendosi con le sue manone alle pareti del corridoio arrivò fin da lei con un ruzzolone e la portò via di lì, che mia madre già la piangeva morta. Poi ricordo quel sibilo atroce, come di un treno che frena e non si ferma e la cucina piena di terra e di calcinacci. Mio padre mi spiegò che era stata una bomba che aveva raschiato casa nostra ed era andata oltre. Quando tutto di colpo finì il cielo era nero del fumo degli incendi ed io capii dove era andata quella bomba. Aveva appena scoperchiato una tettoia sopra il nostro terrazzo, aveva continuato la sua corsa ed era esplosa dentro la casa del mio amico del cuore, Marcellino, che adesso era un cumulo di macerie. Scavarono in tanti, anche il mio papà e tirarono fuori i genitori di Marcellino, sua sorella di quattro anni e lui per ultimo. Tutti morti. E io lo porto sempre dentro di me da allora.
Altro non voglio ricordare. Non sono mai cose belle.
|
Un'immagine di Civitavecchia al termine dei bombardamenti, 14 maggio 1943 |
Anzitutto grazie. Perché raccontare quegli anni non è facile e posso solo immaginarlo. Passiamo a cose belle. Gli anni della ricostruzione, della gioia, del boom economico.
Hai detto di avere frequentato la Roma di quegli anni, quella della Dolce vita. Com'era?
Gli anni della Dolce Vita erano un sogno ad occhi aperti.
Io con altri amici miei - due - avevamo cercato e trovato un lavoretto a Cinecittà. Facevamo un po' di tutto. È stato lì che ho imparato a fare scenografia velocissima. Poi, per "Rocco e i suoi fratelli" la Ponte De Laurentis - insieme allora- cercavano dei fotografi. Io avevo imparato a fotografare da papà, Gianni Digati sapeva fare tutto a sentir lui e Roberto Dimaria effettivamente era figlio di un fotografo e lavorava nel negozio del padre. Ci presentammo pensando di dover fare un esamino. Invece niente. Ci diedero due macchie a testa a soffietto, strepitose, una borsa con duecento rullini dentro (e ricordatevi di scattarle tutte ci dissero).
"Adesso passate alla Cassa in ufficio, che vi danno i soldi che vi occorrono".
Andammo e quella alla cassa ci mette sotto il naso una ricevuta a testa. "Firmate", e intanto si mette a contare fogli da 10.000. Conta conta... settantacinque a testa. 750.000 lire! Mio padre che allora era vicedirettore alla Cassa di Risparmio di Civitavecchia prendeva 250.000 lire al mese per quattordici mensilità.
"Aò, nun fate i tirchi. Guardate che non voglio vedere resti... insomma ve li dovete spende tutti... avete capito? Però vojo le ricevute".
A quei tempi la Democrazia Cristiana, mi pare fosse stato Andreotti che era sottosegretario di non mi ricordo più, aveva fatto un decreto legge per cui il cinema veniva al primo posto e spendevano e spandevano tutti come matti per far vedere che i soldi servivano veramente. Un tipico sistema all'italiana.
Ci dettero una Lancia Flaminia - hai capito bene - blu notte della produzione e ci mettemmo in marcia per Torino, Milano e qualsiasi città del nord dove dovevamo fotografare cortili popolari con scale e scalette e panni al sole. Tutto quello di caratteristico che c'era.
Stemmo in viaggio 28 giorni sghignazzando e facendo orride puzze, e sganasciandoci dalle risate. Fotografammo tutto, Luana, ma proprio TUTTO, il sudiciume, la miseria, gli stracci, i vasi da notte e gli archi, gli archetti, gli interni di tutti i cortili immaginabili di Torino, Genova, Milano, Vercelli, Busto Arsizio e non ricordo più quanti. Guidavamo, incontravamo un paese e la prima strada ci mettevamo a piedi in cerca di cortili e giù foto. Un delirio di scatti.
Tornammo senza una lira, senza benzina e con 600 rotoli x 36 scatti e una caterva di ricevute.
"Voi sì che sete quelli boni" disse la capoufficio. Te credo, avevamo bruciato in 28 giorni 2.250.000 lire più quasi 350.000 in buoni benzina per la Flaminia, che beveva come una spugna.
Non dimenticherò mai quel viaggio, anche se non ci fu nessuna avventura erotica.
Alla fine portammo tutti i rotoli in quella che chiamavamo "l'officina". Lì stamparono tutte le foto in una giornata e ne fecero una straordinaria serie di molte migliaia di bianche e nere come tutto allora - fatti il conto - formato quaranta per cinquanta. Le appiccicarono con nastro adesivo alle pareti di uno studio immenso.
Ci mettemmo ad aspettare che arrivasse il grande regista, bravissimo ed elegantissimo omosessuale, Visconti.
Il giorno dopo arrivò, entrò, fece un giro completo mormorando qualcosa alla sua segretaria che annotava veloce.
Alla fine venne verso di noi.
"Bellissimo lavoro. Ho scelto una ventina di foto. Faremo una fusione di elementi e ricostruiremo il risultato in questo studio. Complimenti ragazzi"
E intanto teneva d'occhio me e Gianni Digati. Beh, eravamo ventenni e due gran bei ragazzi.
Nel film riconobbi alcune cose che avevamo fotografato, ma era stato un lavorone per nulla o quasi.
|
Luchino Visconti (a destra) sul set di Rocco e i suoi fratelli |
In breve, il tuo incontro con Anna Magnani.
Un pomeriggio sul tardi stavamo io e un'altra persona in uno dei locali in Via Veneto, seduti ad un tavolo. Facevamo cagnara e più in là una signora bella piena di capelli neri e con due occhialoni scuri leggeva quello che chiaramente era un copione. Sollevò la testa, abbassò gli occhiali e vidi gli occhi. La riconobbi. "Nun ce riuscite propio a stevvene zitti e boni" ma le ridevano gli occhi. Anna Magnani. Che donna mamma mia! Da perderci la testa, non bellissima ma travolgente e una risata de gola che te strappava lembi dell'anima. Chiaccherò con noi per oltre mezz'ora finché non errivò un tipo della produzione a portarsela via.
"Come te chiami tu?"
"Enzo"
"Tutto lì?"
"Beh no, io mi chiamo Vincenzo"
"Ecco, questo è mejo assai, nun te nasconne mai, che sei bello come er sole".
Come sei arrivato in Germania?
Marcello Del Monaco, regista già allora famoso e figlio del grandissimo tenore Mario, mi aveva conosciuto a Verona per l'allestimento scenico di un'opera di Verdi, se ricordo bene. Mi aveva fatto un sacco di domande, tra cui se avessi in uggia l'idea di trasferirmi "momentaneamente" in Germania, a Francoforte sul Meno dove aveva intenzione di mettere in scena una Bohéme. Il suo scenografo era un certo Scott, irlandese molto bravo ed educato. "Mi occorre un pittore di scena bravo come te e che non la manda a dire" Avevo risposto di sì, mica tanto convinto. Qualche mese dopo mi telefona e mi dice che mi aspetta a Francoforte. Tutto spesato. "Vieni a vedere poi decidi".
Allora vivevo con la mia famiglia a Treviso ed io andavo quasi ogni settimana a Quarto d'Altino dove c'era "La bottega veneziana" di Rocchetta, amico mio ed eccellente pittore. Curavamo allestimenti scenici di teatri italiani, tipo San Carlo di Napoli, Opera di Roma, Bellini di Catania e svariati altri, compresa La Scala ma solamente per dettagli e che mai se ne parlasse per favore. Ne parlai con Rocchetta e lui mi diede la sua benedizione. "Vai a vedere, che ti costa?"
Capitai in un ambiente completamente nuovo ed inimmaginato. I crucchi sono programmatori nati, capaci di programmare il numero della pennellate perfino. Tutto sehr gut ma noi italiani - che abbiamo inventato questa arte nel settecento a Venezia - sosteniamo che arte è improvvisazione ed istinto.
I bozzetti di Scott era pensati per una sala di pittura italiana, c'era poco da fare. I crucchetti rimasero esterrefatti nel vedere come lavoravo io. Si scrutavano l'un l'altro imbambolati. Per farti capire non sempre i palazzi si costruiscono dalle fondamenta, soprattutto in teatro capita di fare solamente il tetto, tanto solo quello si deve vedere, ma vaglielo a far capire ai francofurtensi.
Morale: per due mesi di lavoro mi offrono alloggio in albergo pagato, vitto pagato e 3500 marchi lordi al mese, circa 2700 netti, cioè nel 1971 quando il cambio era circa tremila lire per un marco, una cofra pazzesca che si guadagnava solamente a Verona. Sarei stato un pazzo a non accettare.
Alla quinta settimana mi mandò a chiamare l'Intendente generale offrendomi un contratto rinnovabile di un anno. Stesse condizioni tolto vitto e alloggio. Telefonai ad Anna Maria assolutamente reticente. "Hai pensato ai bambini?" Vaglielo a far capire che avevo pensato di cambiare tutto. Lei a Treviso era a 200 chilometri da sua mamma; ce ne doveva aggiungere altri mille. Battaglia persa in quel momento e lasciai perdere. Firmai il contratto e mi trovai un appartamento, affittando in seguito un magazzino ben illuminato come mio atelier.
Ho lavorato a Francoforte fino al 1979. Con la nuova stagione mi sono trasferito a Karlsruhe, nel Baden. Perché proprio lì? Tre anni prima era arrivata Anna Maria coi bambini. Le due più grandi erano ragazze di 15 e 13 anni, scuole medie, piene di drogati. Volevo proteggere la mia tribù dalla droga ed andai ad informarmi su quele fosse la piazza più favorevole a sfuggir la droga. Al Polizei Praesidium mi risposero che la cosa era messa brutta. Meno brutta a Karlsruhe. Chiesi aiuto a due scenografi e un regista incontrati a più riprese nella capitale dell'Assia e loro mi fecero un'ottima réclame, considerato che buoni pittori non crescono come i funghi.
Condizioni ottime ma non speciali come a Francoforte, ma la vita era molto meno cara.
Quello che non avevo previsto era l'ostilità dei Badenser, dei locali, marpioni che usavano tra loro il dialetto strettissimo, una specie del nostro bergamasco per capirci, per cui io che venivo da dove il tedesco era di facile intuizione entravo nell'imbuto di una lingua del tutto sconosciuta.
Cercarono in ogni modo di tenermi lontano dal lavoro costruttivo, tantoché mi vidi costretto ad andare a parlare col Direttore generale che mi assicurò che quella era brava gente un po' gelosa e diffidente. Una vigorosa mano me la diede Ulrich Benninghof, un celeberrimo - forse l'unico a quel livello - regista e scenografo dell'allora Repubblica democratica tedesca, la DDR, invitato dal nostro Intendente a rappresentare da noi un opera di Wagner, il Tannhäuser.
Aveva preparato un bozzetto complicatissimo che presupponeva una conoscenza assoluta della tecnica pittorica, cosa che questa squadra nemmeno lontanamente aveva sperimentato. Costruivano fondali su teloni come se dovessero imbiancare muri esterni di uno stabile.
Una mattina - io non avevo avuto nemmeno l'onore di scambiare due parole con Benninghof - stavo aggiustando non ricordo cosa sulla scena del piccolo teatro di prosa, quando mi vengono a chiamare. "Ti vuole il bolscevico di sopra in Malersaal". Cosa può volere adesso il comunista da me?
Una scena da film di Fellini: un'intera squadra di pittori al centro della sala ad occhi bassi e la coda tra le gambe, come solo soldati tedeschi sconfitti ed umiliati possono tenere, muti senza più una stilla di vita ed in mezzo enorme e fatidico Benninghof che gli urla nelle orecchie "INCAPACI. PULITECI LE STRADE COI VOSTRI PENNELLI".
Appena mi vede mi apostrofa: "Sind sie italiener?" Lei è italiano? Annuisco e lui, sbattendomi sotto il muso il suo bozzetto a gran voce mi chiede: "SIND SIE FÄHIG DAS ZU MALEN?" Lei è capace di dipingere questo?
Do un'occhiata al foglio sgualcito che mi agita sotto il muso, faccio due passi verso di lui e lo apostrofo io a brutto grugno. "Dov'era lei dieci anni fa? In quale teatrino della sua repubblichetta faceva rappresentazioni? Sa dove io fossi? A Verona. Lavoravo con Rocchetta della "Bottega veneziana", facevamo cose immense non robette come questa scheise Vorlage, e lei viene oggi a chiedere a me se io sia in grado di dipingere questi zeppetti? Da noi lo fanno gli apprendisti al secondo anno".
Lo stavo umiliando davanti a tutti, che ricominciavano ad avere colore nelle guance. E adesso che gli risponderà? NIENTE. Mi guardò, sorrise e disse: "Non lo dubitavo. Adesso me lo finisca in tempo per la prima".
Ero diventato il loro eroe, senza aver fatto altro che un paio di urlacci. Ma da quel momento nessuno più si è messo d'intralcio sulla mia strada.
Dico la verità: avrei potuto lavorare a Berlino oppure a Monaco di Baviera, ma credo che la stima e l'affetto che ho raccolto a Karlstuhe non avrei potuto averlo altrove, fino all'ultimo fondale, che il mio direttore generale mi pregò di firmare e datare. La cosa è assolutamente inconsueta. Ma io avevo deciso di smettere e di cambiare lavoro andando ad insegnare ai giovanotti come si usano i pennelli lunghi da teatro.
Quel fondale, bellissimo ancora oggi è appeso nel foyer del teatro. L'unico, firmato e datato a perenne memoria del passaggio del sottoscritto.
Sotto, alcune opere di Enzo.
|
Senza titolo, 1987 - acrilico |
|
Anna Maria di fronte alla finestra - acrilico |
|
I bevitori, 1976 - olio |