lunedì 30 settembre 2024

I miserabili - Victor Hugo

Incipit: Nel 1815 Charles-François-Bienvenu Myriel era vescovo di Digne; vecchio di circa settantacinque anni, occupava il seggio di Digne dal 1806. 
Benché questo particolare non c'entri per nulla col fondo stesso della nostra narrazione, non è forse inutile, non foss'altro che per scrupolosa esattezza, accennare qui alle voci e alle chiacchiere corse sul suo conto al tempo in cui egli stesso era giunto nella diocesi. Vero o falso, quel che si dice degli uomini occupa spesso nella loro vita, e soprattutto nel loro destino, un posto uguale alle loro azioni. 

Editore: Mondadori - Oscar
Pagine: 1073
Prezzo: € 18,00

Ho dedicato l'intero mese di giugno a questa monumentale lettura, un'esperienza che intendevo fare da anni, da quando avevo letto e recensito Notre-Dame de Paris (qui). 
Da quanto tempo conoscevo questa storia? Fin da piccola. È una storia celebre, il suo protagonista resta nella memoria. Mi ricordavo la versione cinematografica del '98 con Liam Neeson nel ruolo di Jean Valjean e il film tratto da uno dei più longevi musical della storia di questo genere, pellicola del 2013 con Hugh Jackman nel ruolo del protagonista e Russell Crowe in quello di Javert - opera monumentale del regista Tom Hooper che fece incetta di Oscar, Golden Globe e Bafta. C'è anche una miniserie televisiva del 2000, con Depardieu protagonista, che non mi piacque particolarmente. 

Insomma, una storia non solo di grande successo ma anche narrata da sceneggiatori e produttori.
I miserabili non fu un romanzo che mise d'accordo tutti. Gli scrittori francesi si divisero fra detrattori ed entusiasti - ad esempio, Baudelaire lo definì "immondo" pur riconoscendo la grandezza di molte pagine, Flaubert lo bollò del tutto negativamente, Lamartine lo disse "pericoloso", Rimbaud lo ritenne invece un vero e proprio poema. 
E come spesso accade in barba alle élite intellettuali, il libro fu accolto dal pubblico francese, classe operaia inclusa, con un tale entusiasmo da decretargli un successo non solo di migliaia di vendite ma l'attenzione di editori oltre confine, con traduzioni in più lingue e un'accoglienza dei lettori a dir poco straordinaria. 
I miserabili è un romanzo politico, disturbante, reazionario. Possiamo definirlo anche "romanzo sociale", perché - come farà Zola un ventennio più tardi - sceglie di raccontare "i miserabili", la Francia dimenticata dai diritti sanciti dalla grande Rivoluzione. 
Chiunque esca da un romanzo di Victor Hugo è certo che l'autore conosca bene, anzi perfettamente, la propria materia. Hugo non solo ama in maniera viscerale la Francia e Parigi, ma ne conosce storia e politica e pertanto consolida una propria idea che trasforma in narrazione, intreccio. 
Victor Hugo è uno di quegli autori che riescono a emozionarmi, a commuovermi nel profondo. Hugo mi offre l'opportunità, da lettrice e amante della Storia, di conoscere lo sguardo di un intellettuale francese immerso negli eventi della propria patria, dalla penna raffinata e potente, uno scrittore/filosofo, un appassionato della parola e dell'uomo. Che straordinaria lettura.
Che cosa diventa la manciata di foglie del giovane albero segato alla radice? È sempre la stessa storia. Quei poveri esseri viventi, quelle creature di Dio ormai senza sostegno, senza guida, senza asilo, se ne andarono alla ventura, chi sa dove? Ciascuno per la sua strada, forse, e si sprofondarono a poco a poco in quella fredda bruma che inghiotte i destini solitari, tristi tenebre in cui scompaiono uno alla volta tanti esseri disgraziati lungo la tetra marcia del genere umano. 

Jean Valjean
La ricchezza narrativa de I miserabili ci restituisce una grandiosa immagine d'insieme al termine della lettura. Un caleidoscopio al cui centro si trova il suo protagonista: Jean Valjean. 
Valjean è probabilmente un uomo come tanti, uno dei tanti forzati di Francia precipitati nel baratro della giustizia/ingiustizia e per questo marchiati per sempre. Valjean è vittima degli eventi, è un figlio della Francia rivoluzionaria che non ha mantenuto le promesse e pertanto non ha strappato nessuno alla propria miseria. Il contadino Valjean è un criminale semplicemente per aver rotto un vetro e rubato un pane. Per giunta per sfamare non tanto se stesso ma i bambini affamati della propria sorella vedova. 
Il dislivello fra il reato, e quindi la colpa, e la pena è enorme. 
Valjean è gettato in catene e condannato ai lavori forzati, dove resterà per 19 anni anche per aver tentato la fuga, imparando che non esiste giustizia, che i reietti con la casacca rossa sono solo fango, cancellati dalla Storia e dalla società. 
L'anima di Valjean resta schiacciata per troppo tempo dentro la morsa della "giustizia" e pertanto, quando lo raggiunge l'amnistia e viene liberato, non è l'uomo di prima. 

Non sono poche le pagine che mi hanno commosso. Perché se sei un lettore sensibile, entri in questa vita e non puoi fare a meno di partecipare emotivamente a ogni passo o scelta di questo personaggio. Non sappiamo nulla all'inizio, non sappiamo ciò di cui Valjean è capace, e non sappiamo che la gratitudine è sparita dal suo animo, che la sua amarezza è tale da non permettergli di apprezzare l'aiuto altrui, perché troppe sono state le bastonate ricevute, per troppo tempo ha sentito il peso della catena. 
E così, quando Valjean incrocia i passi di quel vescovo di Digne, uomo magnanimo e fuori da ogni logica anche perché uomo di chiesa - una chiesa che nel 1815, alla fine di Napoleone, sta cercando di riaversi dalla crisi e pertanto non cede spesso alla generosità - resta stupito per la sua bontà ma non esita a derubarlo di quei candelabri che tanto rappresenteranno nella sua vita
Se qualcosa possiamo rimproverare a Hugo, queste sono le sue digressioni.
Tipico della letteratura dei grandi classici, le pagine dedicate al vescovo di Digne sono numerose, decine, e quindi bisogna armarsi di una certa pazienza. Al termine, però, di quella prima sezione del libro, comprendiamo perfettamente il gesto del vescovo verso Valjean e il peso della colpa di questo per averlo derubato. Così come comprendiamo cosa significhi per Valjean il perdono del vescovo. 

Nella lunga descrizione del vescovo Myriel c'è una pagina importante. Hugo intende raccontare la propria visione del sangue sparso durante la Rivoluzione e in particolare durante il Terrore del 1793. Ha visto con tutta probabilità una ghigliottina, questa macchina di morte terrificante, e intende farne una propria descrizione servendosi di un espediente. Il vescovo accompagna un condannato a morte sul patibolo.
Chi la vede rabbrividisce del più misterioso dei brividi: tutte le questioni sociali si drizzano a interrogare intorno a quel coltellaccio. Il patibolo è visione; non è una costruzione, una macchina, un meccanismo inerte di legno, di ferro, di cordami; ma uno strano essere con un non so quale oscura iniziativa; si direbbe che questa costruzione vede, questa macchina sente, questo meccanismo capisce, questo legno, questo ferro, questa corda vogliono. Nella fantasticheria orrenda che invade l'anima nella sua presenza, il patibolo appare terribilmente partecipe di ciò che compie. È il complice del carnefice; divora, mangia la carne e beve il sangue; è una specie di mostro, opera del giudice e del falegname, uno spettro che sembra vivere d'una vita spaventevole fatta di tutta la morte che ha dato. 
Il perdono e il dono dei candelabri del vescovo Myriel a Valjean rappresentano il vero riscatto. "Ora siete mio", sussurra il vescovo a Valjean dinanzi ai gendarmi che lo hanno colto con la refurtiva. E lì la storia ha il suo vero inizio. Egli ha il dovere di "diventare il migliore degli uomini". 
Sentiva confusamente che il perdono di quel sacerdote era il più grande assalto e il più formidabile attacco da cui fosse stato mai scosso.
Foto scattata a Casa Hugo
lo scorso anno a Parigi
Nel procedere dell'intreccio si coglie tutto l'investimento di Hugo su questo personaggio. Valjean, da cupo miserabile diventa un signore, un notabile, un "papà" come in Francia si chiamano i magnanimi. 
Valjean legge, si informa, studia, diventa un imprenditore, diventa "Papà Madeleine". 
E poi tutto quello che è già noto. Fantine, una delle lavoranti della sua piccola industria, viene scacciata dalla sorvegliante perché la ragazza è incinta ma non sposata, pertanto diventa una reietta. Valjean è destinato a fungere da padre alla sua bambina, perché Fantine, ritrovata troppo tardi da Valjean, è ormai consunta dalla miseria, devastata, gravemente ammalata. 
C'è un Valjean/padre della piccola Cosette, il suo secondo e definitivo riscatto, in una parola: amore.
Valjean è un uomo dall'animo buono e conosce il sacrificio estremo di sé (tante sono le vicissitudini narrate nel romanzo), nell'amore per Cosette trova il più alto, profondo e intenso dei sentimenti. Il suo più grande progetto di vita, la realizzazione, il senso. 
Egli, che lotta per essere definito "signore", è un senza-nome, poiché il suo nome vero significa ignominia, vergogna di un passato che non può cancellare e quindi può solo occultare. Cosette non può, non deve sapere quel che è stato, ma è pura illusione tenere fra le mani questa piccola perfetta allodola. 

Fantine e Cosette
Fantine è, nella sua immensa miseria e disperazione, anch'essa un personaggio epico. La sua condizione di donna, sedotta e abbandonata incinta, la pone al di sotto dei comuni reietti. 
All'inizio risplendente di bellezza, amore per la vita e per il giovane di cui diviene ingenuamente l'amante, Fantine è elegante nei modi, piena di sogni, innamorata. 
Dopo, Fantine è perduta, rigettata dalla morale dell'epoca, come madre di una figlia illegittima, ai margini, fra le immondizie sordide e degradate di una società che inorridisce dinanzi a lei. Fantine, madre, è licenziata dall'impresa di Valjean e cerca di guadagnare qualcosa cucendo, poi comprende che è impossibile mantenere se stessa e la piccola. Lei che aveva rinunciato alla bambina affidandola ai terribili - ma lei ne è inconsapevole - Thénardier.
Se dovessi fare un confronto tra Fantine e Cosette, la prima ne uscirebbe decisamente vincente.
Senza Fantine, che ha un ruolo chiave nel romanzo, Valjean non avrebbe avuto più nulla da costruire, dopo aver perso la propria impresa - per cause legate al proprio altissimo senso di giustizia. Fantine, mettendo al mondo Cosette, a lui destinata, è una vita perduta ma anche una fragile fanciulla cui Valjean cerca di donare un ultimo disperato respiro. 
Nell'immensa miseria di Fantine - che, ricordiamo, si prostituisce e vende perfino i suoi bellissimi denti incisivi per guadagnare qualche soldo - abbrutita dalla vita, Valjean legge una profonda ingiustizia. Lui e Fantine sono per certi aspetti simili, lui vede l'anima oltre la tragica maschera della ragazza morente
Che cos'è questa storia di Fantine? È la società che compra una schiava. 
A chi? Alla miseria. 
Alla fame, al freddo, all'isolamento, all'abbandono, all'indigenza. Doloroso mercato: un'anima per un pezzo di pane. La miseria offre, la società accetta. 
La santa legge di Gesù Cristo regge la nostra civiltà, ma non la penetra ancora. Si dice che la schiavitù sia scomparsa dalla società europea. Errore: esiste sempre, ma non pesa ormai che sulla donna e si chiama prostituzione. Pesa sulla donna, cioè sulla grazia, sulla debolezza, sulla bellezza, sulla maternità. Non è questa una delle minori vergogne dell'uomo. Al punto cui siamo giunti di questo dramma doloroso non rimane più nulla a Fantine di quel ch'essa fu altra volta.  

 

Fantine (Anne Hathaway) 
nel film del 2013
Cosette, amata da una madre lontana che non rivedrà, diventa la piccola sguattera dei Thénardier, vessata dalla cattiveria dei coniugi e dall'indifferenza delle figlie. Cosette riceve botte e rimbrotti e svolge un lavoro da adulti. Neppure un vestito e delle scarpe decenti le spettano, benché Fantine invii regolarmente il denaro per mantenerla. 
Dai 3 agli 8 anni Cosette dovrà vivere la sua vita da schiava, fino all'incontro salvifico con Valjean. 
Le pagine di questo incontro sono di una bellezza sconcertante. Ci si aspetterebbe che Valjean entri nella bettola dei Thénardier e se la porti via, invece la cosa avviene altrove, nel bosco nei pressi di Montfermeil, in una tarda sera in cui la bambina è stata mandata con un grande secchio a prendere dell'acqua a una sorgente. L'aria è greve di freddo, la piccola è terrorizzata dal buio e gravata dal peso del secchio pieno. 
Seguiamo dappresso tutti i pensieri della piccola, confusi e pieni di paura, le manine gelide, i piedi neppure coperti da calze e chiusi in zoccoli più grandi di diverse misure. La sentiamo in quel cuore disperato, semplice di una innocenza purissima, sentiamo gli scricchiolii delle foglie, fino a quando... "Nell'attimo misterioso in cui le loro mani si toccarono, esse si saldarono; quando le loro due anime si videro, si riconobbero come necessarie l'una all'altra e si avvinsero strette".
Una mano grande e forte le prende il secchio e sfiora le manine fredde. 
Comporre il poema della coscienza umana, foss'anche per un solo uomo, foss'anche per l'infimo degli uomini, significherebbe fondere tutte le epopee in una epopea superiore e definitiva. La coscienza è il caos delle chimere, delle cupidigie e dei tentativi, la fornace dei sogni, l'antro delle idee di cui ci vergogniamo, il pandemonio dei sofismi, il campo di battaglia delle passioni. Penetrate in certe ore attraverso il livido volto di un essere umano che riflette e guardate dentro, guardate in quell'anima, guardate in quell'oscurità. Sotto il silenzio esteriore, si svolgono là lotte di giganti come in Omero, zuffe di draghi e di idre e vi sono nugoli di fantasmi come in Milton, gironi popolati da visioni come in Dante. Cupo infinito che ogni uomo porta dentro di sé e sul quale regola disperato le volontà del suo cervello e gli atti della sua vita.

I villain: Thénardier...
C'è un regola aurea che deve essere rispettata in ogni romanzo: ci vuole un villain, un malvagio cui dobbiamo in sostanza il muoversi degli eventi. Senza il malvagio, senza l'ostacolo e l'impedimento, non ci sarebbe storia. 
Qui di malvagi ce ne sono diversi, ma i veri motori sono due. Vediamo prima Thénardier. 
Il villain Thénardier è epico anch'esso nella sua viltà. Piccolo, sottile, dal viso ad aquila, lo troviamo a Montfermeil proprietario di una bettola che dirige assieme alla moglie. L'insegna è stata dipinta da lui stesso e mostra un uomo che ne porta in groppa un altro traendolo in salvo. Non ne conosceremo il vero soggetto fino alle mirabili pagine che descrivono... niente di meno che l'ultima battaglia di Napoleone, quella Waterloo che sarà la sua disfatta
Thénardier vive perennemente indebitato, immerso in loschi affari, bugiardo, senza morale. Ha una famiglia, una moglie e due bambine, ma non è tipo da trasmettere valori, men che meno nutrire un briciolo di pietà verso la piccola Cosette né perfino per i figli che verranno dopo. Tre maschi privati di cure e affetto che troveremo più avanti. 
Thénardier è un personaggio epico perché riesce, suo malgrado, a essere grande nelle proprie azioni. È acuto, intelligente, uno che non affonda anche nelle peggiori circostanze. 
Sua moglie, descritta come un donnone il doppio di lui, lo venera e lo sostiene in ogni sua azione, ma non possiede la sua intelligenza, pertanto obbedisce ai propri istinti. È eccessiva in tutto, in questa venerazione come nel disprezzo di Cosette. 
Le figlie, Éponine e Azelma, crescono in un'atmosfera di raggiri e truffe e saranno esattamente come il padre. La prima delle due giocherà un ruolo importante nella terza parte del romanzo. 

... e Javert
Jean Valjean (Hugh Jackman, 2013)
Altro personaggio epico è colui che dà la caccia a Valjean. Javert rappresenta la giustizia, è un ispettore di medio grado, ligio al proprio dovere, ossessionato dall'applicazione delle norme. Javert vede nella cattura di Valjean una missione, si sente strumento del destino di ogni criminale, non può esserci redenzione né espiazione per un forzato in fuga. Neppure dinanzi alla magnanimità di Valjean Javert può piegarsi, non esiste perdono né condono né grazia. 
Valjean è però troppo intelligente e fisicamente prestante per cadere facilmente nelle trappole poste da Javert. È suo solo ogni volta che gli si consegna. 
Valjean e Javert non sono solo l'eroe e l'antagonista ma due facce della stessa medaglia. Perché Valjean, lo abbiamo detto, non intende sfuggire al proprio destino, in particolare quando sente che manca il senso alla propria vita. Non è un caso che la fuga più rocambolesca sia del Valjean/padre, al tempo in cui Cosette è ancora una bambina di 8 anni e lui sente che la propria missione di vita è amare quella creatura ed esserne amato. Caduto il senso, ogni volta Valjean è disposto ad aprire le braccia alla pena che lo attende, perché la sua antica colpa è essere forzato e rimanerlo per sempre come marchio che la Storia gli ha impresso sulle carni. 
Javert può uscire di scena solo in maniera spettacolare, non prima di aver fatto i conti con quanto ha voluto ignorare da sempre, aggrappato a un senso di giustizia senza umanità. 
Javert, spaventevole, non aveva nulla di ignobile. La probità, la sincerità, il candore, la convinzione, l'idea del dovere sono cose che, pur cadendo in errore, possono diventare orribili, ma, anche tali, rimangono grandi; la loro maestà, propria della coscienza umana, persiste nell'orrore. Sono virtù che hanno un vizio, l'errore: la spietata gioia d'un fanatico conserva in piena atrocità non so quale splendore degno di lugubre venerazione. Senza sospettarlo Javert, nella sua tremenda felicità, era da compiangere come ogni ignorante che trionfi: nulla più straziante e terribile che quel volto in cui appariva tutto quel che potremmo chiamare la malvagità della bontà.
 
Gavroche
Come ho scritto sopra, i Thénardier avranno altri tre figli dopo le prime due. Nasceranno tre maschi, il primo dei quali è Gavroche. Il talento di Hugo qui si fa acuto, è un osservatore attento della realtà, quindi di Parigi, dell'amata Parigi, non possono sfuggirgli quelle anime di cui si guarda appena il volto, quei monelli che pullulano per le strade, senza famiglia né casa, senza futuro se non quello che giorno dopo giorno vivono nelle loro vite precarie e traballanti. 
Gavroche è un figlio di Thénardier ma abbandonato al proprio destino. Lo lasciamo in una culla solitaria a Montfermeil, lo ritroviamo per le strade di Parigi ladruncolo e spacca-lampioni. 
Gavroche non vive dunque nella sordida stanza abitata dai Thénardier, è stato come dimenticato. Lui conosce la propria famiglia ma non tenta neppure di tornarvi, la sua patria è la strada, il suo giaciglio un vecchio materasso chiuso in un monumento di ferro pieno di topi. 
Date a una creatura l'inutile e toglietegli il necessario e avrete il monello. Il monello non è privo di un qualche intuito letterario: la sua tendenza, lo confessiamo con quel tanto di rammarico che conviene, non sarebbe affatto il gusto classico, egli è per natura poco accademico. [...] Questo essere strepita, schernisce, sbeffeggia, litiga, ha dei cenci come un marmocchio e stracci come un filosofo, pesca nella fogna, va a caccia nella cloaca, trae la gaiezza dall'immondizia, sferza i crocicchi con il suo spirito, sghignazza e morde, fischia e canta, acclama e vitupera, salmodia tutti i ritmi dal De profundis fino alla Chienlit, trova senza cercare, sa quel che ignora, è spartano fino alla marioleria, pazzo fino alla saggezza, lirico fino all'indecenza, si rannicchierebbe sull'Olimpo, si voltola nel letamaio e ne esce coperto di stelle. Il monello parigino è Rabelais in piccolo. Egli non è contento dei suoi calzoni se non ha il taschino per l'orologio. 
Gavroche, pur odiato e abbandonato da genitori e sorelle, nutre dentro di sé un alto senso morale e la capacità di provare compassione e solidarizzare. Il destino gli porrà dinanzi due bambini abbandonati per strada e lui, ignorando che siano proprio i suoi due fratelli minori, li soccorre e consola, offre loro da mangiare e dormire, si sente come doverosamente attratto dalla loro condizione. Non sono abituati alla strada, pertanto lui può insegnare loro come fare, a partire dal gergo. Il gergo di strada è una delle perle preziose del romanzo, Hugo vi dedica anche una digressione letteraria che ne spiega le origini. 
Questo monello, questo ragazzino senza paura e brillante di una intelligenza e di un'anima grande, è destinato a prendere parte alle barricate del giugno 1832. 
Mentre cantava, Gavroche eseguiva la pantomima: il gesto è il punto d'appoggio del ritornello, la sua faccia, inesauribile repertorio di maschere, faceva smorfie più convulse e più fantastiche d'una tela bucherellata sotto forti ventate. Sfortunatamente, siccome era solo e buio, non era né visto né visibile: molti di questi tesori vanno perduti. 
[A Gavroche è stato dedicato perfino un musical, ciò la dice lunga su quanto anche lui sia "epico"].

Marius
In ogni romanzo che si rispetti c'è poi l'amore. Se l'amore sublimato appartiene a Valjean e Cosette, l'amore passionale è di Marius e Cosette. Marius è, per destino, non semplicemente uno dei giovani parigini dall'animo romantico in senso politico, tutto patria e studi, ma anche legato a Thénardier poiché è il figlio di quell'ufficiale che il perfido millantò aver salvato portandolo sulle spalle. 
Quale mirabile coincidenza. Marius, allevato dal nonno Gillenormand filomonarchico e legato all'ancien régime, scopre non solo l'affetto verso un padre deprecato dal nonno, che ritiene da sempre il genero un corrotto dai costumi e dalla fede verso Napoleone, ma l'amore profondo verso una fanciulla accompagnata dal proprio padre anziano ai giardini di Luxembourg - sono Cosette e Valjean. 
Marius ha un primo scopo, quello di amare incondizionatamente Cosette, poi, a un cambio di rotta per volere di Valjean, che gli sottrae la ragazza, quello di servire la repubblica fino alla morte. 
Marius è parte di una cerchia di giovani scintillanti per passione politica, colti e vigorosi, sono i patrioti che abbiamo studiato nei libri di scuola
Tutti questi giovani, così diversi, e dei quali bisogna parlare con molta serietà, avevano una stessa religione: il Progresso. Tutti erano i diretti discendenti della Rivoluzione Francese e pronunciando questa data, l'89, anche i più frivoli si facevano solenni. I loro padri carnali erano, o erano stati, foglianti, monarchici, dottrinari, poco importava: quella confusione anteriore a loro, giovani, non li riguardava; nelle loro vene scorreva il puro sangue dei princìpi e senza sfumatura si aggrappavano al diritto incorruttibile e al dovere assoluto. 
Su tutti, spicca Enjolras, il patriota purissimo, senza altra distrazione se non la patria, l'ottenimento della repubblica contro ogni tentativo monarchico di gestire un paese che ha il dovere di tener fede ai princìpi della Rivoluzione. Enjolras depreca la monarchia e tutto quanto ha rappresentato anche l'imperatore Napoleone, che finì per essere come i suoi predecessori, un despota di regime. 
Il disprezzo di Enjolras per Napoleone si scontra con la fede in Napoleone di Marius, ma ciò non impedisce a entrambi di combattere nei giorni fatali delle barricate. 
Solenni le pagine dedicate alle barricate del giugno 1832. Hugo ci regala una digressione sulla grande barricata Saint-Antoine del 1848, durante la più grande insurrezione parigina del XIX secolo. 
Vi collaborava il ciottolo, il calcinaccio, il trave, la sbarra di ferro, lo straccio, il vetro rotto, la sedia spagliata, il torso di cavolo, il cencio, il brandello e la maledizione. Grandioso e meschino a un tempo: l'abisso parodiato sul posto dal tafferuglio. La massa accanto all'atomo, il pezzo di muro divelto e la scodella rotta, una minacciosa fratellanza di tutti i relitti. Terribile, insomma: era l'acropoli dei pezzenti. 
La narrazione dei terribili giorni delle barricate contiene una solennità che avvince alla pagina. Hugo vi partecipa con tutta la passione e la dedizione dello scrittore che intende tracciare un solco, esprimere una propria visione politica, senza mai staccare lo sguardo dall'umano. 
Il destino dei giovani della cerchia di Enjolras è un monumento alla passione verso l'ardore della patria e il senso del sacrificio estremo di sé per un ideale per il quale è doveroso perfino morire. 
Il genio sta anche nell'aver intrecciato Storia e finzione, perché Valjean è lì, assieme a quei giovani, assieme a Marius, che lo riconosce ma ignora del tutto come Valjean sia fatto. 

***



L'epilogo de I miserabili mi ha strappato commozione e ancora una volta una riflessione. È uno dei finali meno scontati di tanti romanzi che ho letto, classici o contemporanei. 
È un finale logico, realista, inevitabile. 
È come se Hugo ci stesse dicendo che qualsiasi altro modo di chiudere la storia sarebbe impensabile. È un passaggio di consegne, l'illuminazione finale, un cerchio che si chiude. 
Se l'amore è coronato, come deve essere, l'eroe conquista la consapevolezza di un senso ultimo che racchiude tutta la sua esistenza, quel misto di eventi inevitabili e tutto il bene profuso, la fede incrollabile nell'uomo e nelle sue infinite possibilità. 
Siamo portati al rancore, noi che amiamo Valjean, questo personaggio così immensamente epico e tragico, verso chi non comprende, pecca di superficialità, non è del tutto riconoscente se non quando è troppo tardi. Ma Hugo ci regala un passaggio di cui facciamo tesoro. 
Quel che con troppa durezza chiamiamo in certi casi l'ingratitudine dei figli, non è sempre così riprovevole come si crede: è l'ingratitudine della natura, la quale, come dicemmo altrove, "guarda davanti a sé". Essa divide gli esseri viventi in chi arriva e chi parte: questi sono volti verso l'ombra, quelli verso la luce. Di qui una scissura che da parte dei vecchi è fatale e da parte dei giovani involontaria: tale scissura, dapprima insensibile, si allarga lentamente come qualsiasi biforcazione di rami, che senza staccarsi dal tronco se ne allontanano, e non per loro colpa. La giovinezza si volge verso la gioia, le feste, le vive luci, gli amori: la vecchiaia verso la fine. Non ci si perde di vista, ma non c'è più unione. I giovani avvertono il raffreddarsi della vita, i vecchi il gelo della tomba. Non accusiamo questi poveri ragazzi. 
Ancora una volta i classici ci dimostrano di non appartenere ad epoca alcuna, di non esservi relegati per apparire anacronistici. I classici hanno in sé qualcosa che li eterna e li rilancia ogni volta più in là nel tempo, a insegnarci quanto straordinario possa essere l'umano.
Regalarmi I miserabili a un'età matura è stato appunto tale, un regalo. 

Lo avete letto? Quale delle tante versioni teatrali o cinematografiche conoscete? Cosa vi trasmette una figura come quella di Jean Valjean?

1 commento:

  1. Una bella recensione: mi hai rinfrescato la memoria. Ho letto “I miserabili”, ma tanti anni fa. Mentre scrivo, quel grande volume con la sua copertina rigida lo vedo, lì di fronte a me, su un ripiano della mia libreria. Dovrei rileggerlo per poterne parlare in maniera più appropriata e, soprattutto, per poter cogliere quelle emozioni, quelle sensazioni che certi grandi libri ti regalano, ma solo se vengono letti nel pieno della maturità. E devo dire che ho visto anche una sua trasposizione cinematografica, ma non quelle di cui parli tu: io sono più vecchio. Mi riferisco allo sceneggiato televisivo fatto da Sandro Bolchi nel lontano 1964: avevo dodici anni. E forse non avevo l’età giusta per capire fino in fondo quella storia. Ma a quell’epoca si guardava tutto ciò che la Rai trasmetteva – in bianco e nero – su quell'unico canale televisivo che esisteva. Fu mandato in onda in dieci puntate, se non sbaglio la domenica sera, dopo Carosello. Ricordo che ogni puntata era preceduta dal riassunto degli episodi precedenti, anche attraverso immagini salienti. Una cosa del genere oggi appare anacronistica, ma a quei tempi era una vera novità. Ricordo in particolare quel Jean Valjean, interpretato da un grandissimo Gastone Moschin, che all’epoca era uno dei miei attori preferiti. Quella faccia mi è rimasta impressa nella memoria… Jean Valjean era lui, e nel mio immaginario rimarrà sempre lui, qualora dovessi rileggere il libro.
    Ciao Luz :)

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