Incipit: So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato, incurante delle regole del mercantilismo e delle prospettive di salario minimo.
Per la prima volta ho la sensazione di trovarmi dinanzi a un libro difficile da recensire, perché difficile da definire.
Da lettrice, dico che ho impiegato un bel po' a finirlo - l'ho interrotto un paio di volte, in effetti - complici lo slang tipico dei ghetti di periferia di cui è disseminato, la velocità a cui si muove la storia, e in definitiva il genere stesso in cui è collocato.
Poi ti convinci che sono solo alcuni aspetti di questo interessante affresco della situazione razziale statunitense - col quale il suo autore ha per altro vinto il Man Booker Prize 2016 - così come è adesso, dopo secoli di una storia che ha attraversato fasi di razzismo dichiarato e che è arrivata a essere specchio di una democrazia in cui ancora e ancora i diritti del popolo nero non esistono e i bianchi monopolizzano storia e cultura.
Ma non voglio arzigogolare, veniamo all'intreccio. Protagonista Bonbon, un giovane nero di Dickens, cittadina inventata da Beatty sulla falsariga delle numerose frazioni delle metropoli americane, quelle in cui la storia nel tempo ha spinto i reietti, in questo caso la popolazione nera di Los Angeles.