venerdì 19 aprile 2019

Chiara è andata in Africa


Chiara Cecchini
      Fra le mie giovani attrici della Compagnia, c'è una fanciulla molto particolare, una diciannovenne che ha il fuoco dell'arte nelle vene, ma anche molto altro. 
       Chi ha visto Chiara in palcoscenico non può dimenticarla. Intensa, profonda, travolgente. Ha uno sguardo puro e bello, che le ho visto donare a Lily Anderson in Foglie d'erba, ad Anne Frank e nell'ultimo nostro lavoro in particolare alla Volpe. 
      Studentessa di Lingue all'università, Chiara oltre a essere un'ottima attrice e studentessa, fa parte da qualche tempo di un'organizzazione giovanile impegnata nel sociale. 
      Lo scorso ottobre non ha partecipato alle prove per Il Piccolo Principe per due settimane, perché Chiara era andata in Africa, a portare aiuto in una missione. 
      Una decisione e poi realizzazione a dir poco ammirevole, coraggiosa. 
      Le ho fatto un'intervista, perché questa sua esperienza possa essere conosciuta e fare da esempio per tutti noi.  
       
      
      Dove sei stata esattamente e per quanti giorni? 
      Sono stata in Sierra Leone, più precisamente nell’area di Makeni per 15 giorni.

Quando hai capito che avresti fatto questo viaggio?
Io sono cresciuta nella parrocchia di Ariccia dove Don Pietro, il padre della missione, ha contagiato tutti con la sua Africa. Questa parola quindi mi è stata sempre stata vicina, mi ha accompagnato per lungo tempo ed è sembrato un passo naturale, alla maggiore età, quello di partire. Quello che ho imparato però, è che non si è mai pronti per l’Africa, si arriva con mille idee, aspettative, già “plasmati” in qualche modo, per ritrovarsi poi di nuovo argilla nelle mani accoglienti dell’Africa. Credo, quindi, di aver capito veramente che stessi partendo solo una volta raggiunta Makeni. Quando tutto attorno a me sconvolgeva quello che avevo vissuto fino a quel momento della mia vita.



Qual è la cosa più bella che ti sia capitata di vedere e quella più brutta?
La cosa più bella che ho visto e che non smetterò mai di raccontare è accaduta durante la “pausa acqua” quando nel pomeriggio, dopo aver giocato un po', formavamo delle file per dare da bere ai bambini. Le file, come si può immaginare, potevano diventare spesso caotiche. C’è voluto un po' a far capire ai bambini che tutti l’avrebbero ricevuta in quantità. Loro sono abituati a vivere del momento. Così qualcuno provava a saltare la fila, a inserirsi più avanti. Ma veniva puntualmente spinto fuori dai bambini stessi. Un bambino era particolarmente brusco nei modi, lo avevo notato dal fondo della fila. Ma lo stesso bambino che si era dimostrato più "violento", arrivato al suo turno, si gira a mezzo busto per portare in avanti il fratellino che aveva aggrappato alla schiena, e fa bere prima lui. Prende la tazza e lo aiuta. Aspetta pazientemente, lo fa bere due volte. Poi beve lui. Riprende il fratellino in braccio e si allontana.
La cosa più brutta sono sicuramente gli sguardi assenti di alcuni bambini. Quelli sono gli effetti della malnutrizione, e a volte, anche dell’uso di sostanze stupefacenti. Sono principalmente bambini non scolarizzati che vivono in strada.



Come funziona una missione?
Una missione parte da un sognatore. Uno così pazzo che comincia da zero a fare progetti per cambiare delle vite. Ma cosa sarebbero i progetti senza le persone che li sposano? Il sognatore trova la sua forza in tutte quelle persone che cominciano a sognare con lui.  Si forma una rete di coraggio e solidarietà che abbatte ogni ostacolo. I veri risultati si vedono dopo anni di sacrifici e di resilienza, e questi risultati sono motivo di gioia ma mai sono dei traguardi, non esiste un traguardo in una missione. Le maniche sono sempre rimboccate. Mentre si festeggia l’inaugurazione di una scuola, se ne progetta un’altra etc…

Cosa si può fare veramente per aiutare queste persone?
Questa è una domanda che ha senso porsi solo se ripetuta continuamente. Non si deve mai smettere di chiedere a se stessi “cosa posso fare per l’altro”. Fare di questa domanda una provocazione viva, è la strada per “fare” veramente.  L’altro è in ognuno di noi, prendersi cura dell’altro deve essere un atto d’amore quotidiano. Nel concreto sicuramente, per l’Africa, come per ogni civiltà, va investito tutto sulla formazione e l’educazione. La nostra missione ha costruito prima la scuola e poi la cappella.



Quando si torna a casa da un'esperienza del genere, cosa cambia?
Cambia tutto. Ricordo che quando papà è venuto a prendermi in aeroporto, non riuscivo a parlare, in autostrada piangevo senza sosta ma in modo composto, continuavo a non parlare. La strada era molto silenziosa, vuota, rispetto a come l’avevo vissuta per 15 giorni. Lì c'era una festa di clacson, motorini con almeno tre persone a bordo, ho persino visto una macchina con una montagna di oggetti, sedie, vestiti, armadi e una capretta! Non riuscivo neanche a stare a casa, sentivo un senso di chiusura, una qualche forma di claustrofobia credo, a volte sentivo mancare il respiro. Questo è quello che ho sentito per molto tempo dopo il mio ritorno, anche andare all’università era diventato complicato. Mi mancava la mia Sierra Leone, i nostri bambini, i loro sorrisi, l’appuntamento delle 15 per giocare, mi mancava il corridoio che collegava tutte le stanze dei miei compagni di viaggio, dove abbiamo pianto, riso e condiviso tanto.
Questi sono i cambiamenti che senti subito, sulla pelle. Ma quelli interiori, beh è tutta un’altra storia…

Se il tuo desiderio di lavorare per una missione è una specie di "vocazione", come si può conciliare questo desiderio con un proprio progetto di vita?
Dipende in fondo dal tuo progetto di vita, credo che tutto riesca ad integrarsi perfettamente con una missione del genere. Mi viene in mente il nostro Daniele, da poco laureato in Medicina e la sua tesi sullo stato nutrizionale dei bambini nelle nostre scuole. Facciamo parte di un gruppo totalmente eterogeneo, veniamo tutti da realtà, studi e passioni diverse. L’Africa è il collante che ci tiene uniti.



Cosa si può fare senza andare in una missione in Africa?
Nella nostra associazione ci sono persone che non sono mai partite in Africa e che pure hanno gli occhi e il cuore pieni di amore per questa terra. Loro mi dimostrano ogni giorno che sì, ci vuole forza, ma che anche da qui è possibile costruire un “ponte di umanità”. La prima cosa che sicuramente si può fare è quella di lasciarsi toccare. Di dare voce agli ultimi, con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione. Di essere le luci in questa epoca di buio, di nazionalismi e di muri.

Cos'è il Ponte di Umanità Onlus?
Ponte di Umanità O.N.L.U.S. è un’organizzazione no-profit nata 25 anni fa nel 1995, dal desiderio di un sacerdote e di una comunità di aiutare un paese fratello. Così, Don Pietro, il padre della missione, cercò nei dati dell’ONU quale fosse il paese più povero al mondo in quel momento. Era la Sierra Leone. Senza un secondo di esitazione gettò le basi per partire e per costruire la missione. La prima azione fu quella di riscattare più di 1500 bambini-soldato. Erano gli anni della terribile Guerra dei Diamanti. I bambini che vennero presi tra i tanti erano quelli che versavano nelle condizioni peggiori, i mutilati, gli ammalati. I generali ridevano di questa scelta. Molti dei bambini morirono solo qualche giorno dopo, ma accompagnati dalla carezza di un abbraccio, dall’amore umano, che forse nei loro pochi anni di vita non avevano mai ricevuto.
La missione fu resa più stabile quando un gruppo di suore nigeriane “Le Piccole Discepole di Gesù” decisero di dedicare la loro vita ai bambini nelle nostre scuole di Makeni e Ropolon, nel centro polifunzionale di Yele, dove si prendono cura di otto bambine rimaste orfane dopo l’epidemia di Ebola, nella scuola di cucito di Port Loko, dove giovani donne imparano un mestiere che possa dar loro la possibilità di una maggiore indipendenza economica, ed infine a Lunghi.

C'è una persona in particolare che vorresti rivedere?
Questa proprio non me l’aspettavo, è difficile pensare ad una persona in particolare. Una bambina che sicuramente mi è entrata nel cuore è Isatsu. Sui 10 anni, musulmana, indossava spesso il velo, ma non sempre. Con lei ho stretto tanto, abbiamo giocato insieme e abbiamo ballato sotto la pioggia. Cercava sempre la mia mano da stringere. Come non pensare poi anche a tutte le suore che sono là? Loro hanno lasciato le loro madri, i loro padri, i loro fratelli e sorelle, per vivere al servizio degli ultimi. Non credo che abbia mai visto persone più coraggiose e più forti di quelle donne.

Volevo poi ricordare a voi tutti che è iniziata la campagna per la dichiarazione dei redditi, tante volte non si sa davvero a chi donare, io vi propongo la realtà di cui faccio parte. 
Per noi e per quei bambini è un aiuto enorme.



Grazie, Chiara. 

15 commenti:

  1. Stimo molto questa ragazza, sono persone come lei la parte migliore del nostro futuro

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    1. E dire che molti sostengono che i giovani d'oggi, senza distinzione alcuna, non valgano nulla. Mah.

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  2. Complimenti a Chiara, una scelta coraggiosa e ammirevole. Mi unisco a Nick nell'esprimere stima per lei.

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  3. È difficile commentare, dopo avere letto una storia così intensa e gioiosa. Grazie a entrambe per questa bella testimonianza.

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  4. Che bello leggere di ragazzi così, di cui Chiara è portavoce. Siete un esempio di umanità vera, quella che deve continuare a illuminare l'altra. Grazie.

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    1. Giovani così controbilanciano il nulla che c'è dall'altra parte, è verissimo.

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  5. Chiara è una ragazza davvero speciale, fa bene al cuore leggere di giovani così.

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    1. E frequentarla è una fortuna... intelligente, umile. Bella fuori e dentro.

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  6. Una bella esperienza di una ragazza generosa! Grazie per averla condivisa!

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  7. Complimenti alla ragazza per la sua scelta e a te per averci narrato questa bellissima storia

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    1. Tenevo a farla conoscere anche attraverso il mio blog.

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  8. Grazie Chiara (e grazie anche a Luz). Ho appena finito di leggere un'esperienza simile, nel libro di Nicolò Govoni "Bianco come Dio", che ha passato 4 anni in un orfanotrofio in India e ne ha scritto la storia per finanziare la biblioteca dell'orfanotrofio. Ha anche creato un testo scolastico per l'insegnamento facile della lingua inglese a questi ragazzi. E adesso sta portando avanti lo stesso progetto di educazione al campo profughi di Samos, in Grecia.
    Per fortuna che ci sono giovani come loro!

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