Chiara Cecchini |
Fra le mie giovani attrici della Compagnia, c'è una fanciulla molto particolare, una diciannovenne che ha il fuoco dell'arte nelle vene, ma anche molto altro.
Chi ha visto Chiara in palcoscenico non può dimenticarla. Intensa, profonda, travolgente. Ha uno sguardo puro e bello, che le ho visto donare a Lily Anderson in Foglie d'erba, ad Anne Frank e nell'ultimo nostro lavoro in particolare alla Volpe.
Studentessa di Lingue all'università, Chiara oltre a essere un'ottima attrice e studentessa, fa parte da qualche tempo di un'organizzazione giovanile impegnata nel sociale.
Lo scorso ottobre non ha partecipato alle prove per Il Piccolo Principe per due settimane, perché Chiara era andata in Africa, a portare aiuto in una missione.
Una decisione e poi realizzazione a dir poco ammirevole, coraggiosa.
Le ho fatto un'intervista, perché questa sua esperienza possa essere conosciuta e fare da esempio per tutti noi.
Dove sei stata esattamente e per quanti giorni?
Sono stata in Sierra Leone, più
precisamente nell’area di Makeni per 15 giorni.
Quando hai capito che avresti fatto questo
viaggio?
Io sono cresciuta nella parrocchia di
Ariccia dove Don Pietro, il padre della missione, ha contagiato tutti con la
sua Africa. Questa parola quindi mi è stata sempre stata vicina, mi ha
accompagnato per lungo tempo ed è sembrato un passo naturale, alla maggiore
età, quello di partire. Quello che ho imparato però, è che non si è mai pronti
per l’Africa, si arriva con mille idee, aspettative, già “plasmati” in qualche
modo, per ritrovarsi poi di nuovo argilla nelle mani accoglienti dell’Africa. Credo,
quindi, di aver capito veramente che stessi partendo solo una volta raggiunta
Makeni. Quando tutto attorno a me sconvolgeva quello che avevo vissuto fino a
quel momento della mia vita.
Qual è la cosa più bella che ti sia capitata di
vedere e quella più brutta?
La cosa più bella che ho visto e che non
smetterò mai di raccontare è accaduta durante la “pausa acqua” quando nel
pomeriggio, dopo aver giocato un po', formavamo delle file per dare da bere ai
bambini. Le file, come si può immaginare, potevano diventare spesso caotiche.
C’è voluto un po' a far capire ai bambini che tutti l’avrebbero ricevuta in
quantità. Loro sono abituati a vivere del momento. Così qualcuno provava a
saltare la fila, a inserirsi più avanti. Ma veniva puntualmente spinto fuori
dai bambini stessi. Un bambino era particolarmente brusco nei modi, lo avevo
notato dal fondo della fila. Ma lo stesso bambino che si era dimostrato più "violento", arrivato al suo turno, si gira a mezzo busto per portare in avanti il
fratellino che aveva aggrappato alla schiena, e fa bere prima lui. Prende la
tazza e lo aiuta. Aspetta pazientemente, lo fa bere due volte. Poi beve lui.
Riprende il fratellino in braccio e si allontana.
La cosa più brutta sono sicuramente gli
sguardi assenti di alcuni bambini. Quelli sono gli effetti della malnutrizione,
e a volte, anche dell’uso di sostanze stupefacenti. Sono principalmente bambini
non scolarizzati che vivono in strada.
Come funziona una missione?
Una missione parte da un sognatore. Uno così pazzo che
comincia da zero a fare progetti per cambiare delle vite. Ma cosa sarebbero i
progetti senza le persone che li sposano? Il sognatore trova la sua forza in
tutte quelle persone che cominciano a sognare con lui. Si forma una rete di coraggio e solidarietà
che abbatte ogni ostacolo. I veri risultati si vedono dopo anni di sacrifici e
di resilienza, e questi risultati sono motivo di gioia ma mai sono dei
traguardi, non esiste un traguardo in una missione. Le maniche sono sempre
rimboccate. Mentre si festeggia l’inaugurazione di una scuola, se ne progetta
un’altra etc…
Cosa si può fare veramente per aiutare queste persone?
Questa è una domanda che ha senso porsi solo se ripetuta
continuamente. Non si deve mai smettere di chiedere a se stessi “cosa posso
fare per l’altro”. Fare di questa domanda una provocazione viva, è la strada per
“fare” veramente. L’altro è in ognuno di
noi, prendersi cura dell’altro deve essere un atto d’amore quotidiano. Nel
concreto sicuramente, per l’Africa, come per ogni civiltà, va investito tutto
sulla formazione e l’educazione. La nostra missione ha costruito prima la
scuola e poi la cappella.
Quando si torna a casa da un'esperienza del genere, cosa
cambia?
Cambia tutto. Ricordo che quando papà è venuto a prendermi
in aeroporto, non riuscivo a parlare, in autostrada piangevo senza sosta ma in
modo composto, continuavo a non parlare. La strada era molto silenziosa, vuota,
rispetto a come l’avevo vissuta per 15 giorni. Lì c'era una festa di clacson, motorini
con almeno tre persone a bordo, ho persino visto una macchina con una montagna
di oggetti, sedie, vestiti, armadi e una capretta! Non riuscivo neanche a
stare a casa, sentivo un senso di chiusura, una qualche forma di claustrofobia
credo, a volte sentivo mancare il respiro. Questo è quello che ho sentito per
molto tempo dopo il mio ritorno, anche andare all’università era diventato
complicato. Mi mancava la mia Sierra Leone, i nostri bambini, i loro sorrisi,
l’appuntamento delle 15 per giocare, mi mancava il corridoio che collegava
tutte le stanze dei miei compagni di viaggio, dove abbiamo pianto, riso e
condiviso tanto.
Questi sono i cambiamenti che senti subito, sulla pelle. Ma
quelli interiori, beh è tutta un’altra storia…
Se il tuo desiderio di lavorare per una missione è una
specie di "vocazione", come si può conciliare questo desiderio con un
proprio progetto di vita?
Dipende in fondo dal tuo progetto di vita, credo che tutto
riesca ad integrarsi perfettamente con una missione del genere. Mi viene in
mente il nostro Daniele, da poco laureato in Medicina e la sua tesi sullo stato
nutrizionale dei bambini nelle nostre scuole. Facciamo parte di un gruppo
totalmente eterogeneo, veniamo tutti da realtà, studi e passioni diverse. L’Africa
è il collante che ci tiene uniti.
Cosa si può fare senza andare in una missione in Africa?
Nella nostra associazione ci sono persone che non sono mai
partite in Africa e che pure hanno gli occhi e il cuore pieni di amore per
questa terra. Loro mi dimostrano ogni giorno che sì, ci vuole forza, ma che
anche da qui è possibile costruire un “ponte di umanità”. La prima cosa che
sicuramente si può fare è quella di lasciarsi toccare. Di dare voce agli
ultimi, con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione. Di essere le luci in
questa epoca di buio, di nazionalismi e di muri.
Cos'è il Ponte di Umanità Onlus?
Ponte di Umanità O.N.L.U.S. è un’organizzazione no-profit
nata 25 anni fa nel 1995, dal desiderio di un sacerdote e di una comunità di
aiutare un paese fratello. Così, Don Pietro, il padre della missione, cercò nei
dati dell’ONU quale fosse il paese più povero al mondo in quel momento. Era la
Sierra Leone. Senza un secondo di esitazione gettò le basi per partire e per
costruire la missione. La prima azione fu quella di riscattare più di 1500
bambini-soldato. Erano gli anni della terribile Guerra dei Diamanti. I bambini
che vennero presi tra i tanti erano quelli che versavano nelle condizioni
peggiori, i mutilati, gli ammalati. I generali ridevano di questa scelta. Molti
dei bambini morirono solo qualche giorno dopo, ma accompagnati dalla carezza di
un abbraccio, dall’amore umano, che forse nei loro pochi anni di vita non
avevano mai ricevuto.
La missione fu resa più stabile quando un gruppo di suore
nigeriane “Le Piccole Discepole di Gesù” decisero di dedicare la loro vita ai
bambini nelle nostre scuole di Makeni e Ropolon, nel centro polifunzionale di
Yele, dove si prendono cura di otto bambine rimaste orfane dopo l’epidemia di
Ebola, nella scuola di cucito di Port Loko, dove giovani donne imparano un
mestiere che possa dar loro la possibilità di una maggiore indipendenza
economica, ed infine a Lunghi.
C'è una persona in particolare che vorresti rivedere?
Questa proprio non me l’aspettavo, è difficile pensare ad
una persona in particolare. Una bambina che sicuramente mi è entrata nel cuore
è Isatsu. Sui 10 anni, musulmana, indossava spesso il velo, ma non sempre. Con
lei ho stretto tanto, abbiamo giocato insieme e abbiamo ballato sotto la
pioggia. Cercava sempre la mia mano da stringere. Come non pensare poi anche
a tutte le suore che sono là? Loro hanno lasciato le loro madri, i loro padri,
i loro fratelli e sorelle, per vivere al servizio degli ultimi. Non credo che
abbia mai visto persone più coraggiose e più forti di quelle donne.
Volevo poi ricordare a voi tutti che è iniziata la campagna
per la dichiarazione dei redditi, tante volte non si sa davvero a chi donare,
io vi propongo la realtà di cui faccio parte.
Per noi e per quei bambini è un
aiuto enorme.
Grazie, Chiara.
Stimo molto questa ragazza, sono persone come lei la parte migliore del nostro futuro
RispondiEliminaE dire che molti sostengono che i giovani d'oggi, senza distinzione alcuna, non valgano nulla. Mah.
EliminaComplimenti a Chiara, una scelta coraggiosa e ammirevole. Mi unisco a Nick nell'esprimere stima per lei.
RispondiEliminaLeggerà e le farà certamente piacere.
EliminaÈ difficile commentare, dopo avere letto una storia così intensa e gioiosa. Grazie a entrambe per questa bella testimonianza.
RispondiEliminaGrazie a te per averla apprezzata.
EliminaChe bello leggere di ragazzi così, di cui Chiara è portavoce. Siete un esempio di umanità vera, quella che deve continuare a illuminare l'altra. Grazie.
RispondiEliminaGiovani così controbilanciano il nulla che c'è dall'altra parte, è verissimo.
EliminaChiara è una ragazza davvero speciale, fa bene al cuore leggere di giovani così.
RispondiEliminaE frequentarla è una fortuna... intelligente, umile. Bella fuori e dentro.
EliminaUna bella esperienza di una ragazza generosa! Grazie per averla condivisa!
RispondiEliminaGrazie a te per averla apprezzata.
EliminaComplimenti alla ragazza per la sua scelta e a te per averci narrato questa bellissima storia
RispondiEliminaTenevo a farla conoscere anche attraverso il mio blog.
EliminaGrazie Chiara (e grazie anche a Luz). Ho appena finito di leggere un'esperienza simile, nel libro di Nicolò Govoni "Bianco come Dio", che ha passato 4 anni in un orfanotrofio in India e ne ha scritto la storia per finanziare la biblioteca dell'orfanotrofio. Ha anche creato un testo scolastico per l'insegnamento facile della lingua inglese a questi ragazzi. E adesso sta portando avanti lo stesso progetto di educazione al campo profughi di Samos, in Grecia.
RispondiEliminaPer fortuna che ci sono giovani come loro!