mercoledì 9 dicembre 2020

Luca Sofri non aveva ragione. Il confronto con Michela Murgia e lo svelamento del valore del teatro


Il 28 ottobre di quest'anno, Luca Sofri usciva con un pezzo sulla chiusura dei teatri, che potete leggere qui. Un discorso semplice semplice, logico, perfino banale: i teatri sono luoghi di aggregazione, ergo di assembramento, fra lavoratori e soprattutto pubblico. Dobbiamo preservare i cittadini dalla pandemia, quindi i teatri tornano a chiudere i battenti. 
La sollevazione dei lavoratori dello spettacolo, legittima e forte, si è fatta sentire. Ne è simbolo il flashmob di Piazza del Duomo a Milano, quello dei 500 bauli vuoti, a significare che i flight case dei tecnici, i tantissimi fonici, elettricisti, facchini, ma anche artisti e organizzatori di eventi restano senza vita, vuoti di attrezzature perché lo spettacolo non c'è, è sospeso fino a data ignota

Dinanzi alle proteste dei tanti rimasti senza lavoro e turlupinati da un sistema che li ignora, che non li ritiene lavoratori di categoria, che li disconosce come forza lavoro, si sono levate alcune voci che assomigliano a quella di Maria Antonietta di Francia, quando pare che disse "se non hanno pane, che mangino brioche"
Sì, cos'hanno da lamentarsi questi lavoratori-non lavoratori? I teatri devono restare chiusi, siamo in pandemia, che si aspettavano? Certo, come se le file di chi va a teatro fossero vagamente simili a quelle fuori dai negozi. 

L'intellettuale di sinistra Luca Sofri scrive il suo articolo e già lì personalmente resto stupita da tanto pressapochismo. Poi ascolto il confronto Sofri - Murgia su You Tube, qui, e vado più a fondo. 
La cosa veramente triste è che tanta sinistra non sa cosa siano e cosa rappresentino i teatri. Non lo sanno loro, ignorano il potenziale del dibattito all'interno dei teatri, la forza della parola espressa sui palcoscenici, il valore civico, sociale, formativo dei teatri. Lo ignorano loro, che dovrebbero stare dalla parte dei buoni. Il mio sdegno è tale che decido di farne un post. 
Qui di sotto ho riportato le parole del confronto che riguardano proprio questo tema. 

Sofri ammette che la chiusura dei teatri è ovviamente un caso di costi/benefici ma non una cosa che non ha nessun beneficio. Ed ecco cosa risponde la nostra. 

Michela Murgia   È vero che il teatro è un luogo di assembramento e che si vuole evitare che le persone si spostino sui mezzi pubblici, ma il rapporto numerico fra quelli che si spostano per acquisti e quelli che lo fanno per andare nei teatri è del tutto a favore dei negozi. Solo che nessuno ha detto chiudiamo i negozi. Quando si parla di chiudere i negozi, il governo pare preoccupato per i negozianti, e quindi di chi lavora. Quando si chiudono i teatri, il governo pensa solo a chi va a teatro, quindi pensa che quella roba sia un'attività "ludica" e se la chiudiamo sarà più facile spiegarlo. 
La mia impressione è che ci si dimentica che i luoghi dell'arte sono anche luoghi di lavoro, dietro ci sono migliaia e migliaia di persone, oltretutto neppure tutelate perché è il lavoro più precario che ci sia. Se un negozio resta aperto, il commerciante campa e questo è giusto, però dal punto di vista di costruzione di visione futura, non è che il negozio di maglioni aiuti a riflettere su nuovi scenari. La funzione del teatro è invece anche quella, la funzione del cinema, dell'arte è anche quella. 
Gli spazi in cui si condivide una riflessione, in cui si riceve una provocazione culturale, in cui si convocano assemblee civiche intorno a un tema, a un'idea, un'immagine, sono anche i luoghi in cui le persone acquisiscono strumenti per gestire il cambiamento. Se tu decidi che quelli sono i primi luoghi sacrificabili, stai dicendo che non credi affatto alla funzione dei luoghi dell'arte come luoghi di progettazione di una visione futura. Io che ci credo, la vedo come una mancanza di profezia da parte di chi governa. 
Senza nulla togliere al fatto che i baristi devono campare, che i tabaccai devono campare, non sto dicendo che non abbiano valore, sto dicendo che i luoghi in cui si fa cultura hanno un valore aggiunto che non è quello del maglione. 

La protesta dei bauli, in Piazza del Duomo - 10 ottobre 2020

A questo punto, Sofri si dice d'accordo che i governi trascurino la cultura, ma che questo non è un fatto nuovo (e quindi?), inoltre aggiunge che i luoghi della diffusione e promozione della cultura presso le parti di popolazione in cui la cultura arriva con difficoltà, non sono i teatri (questo è clamoroso detto da un uomo di sinistra!). Incalza dicendo che questa iperprotezione dei teatri gli sembra retoricamente efficace perché il teatro è nobile, ma poi in realtà il teatro è un ambiente elitario, dove vanno persone già molto colte e già molto curiose. (!!!)

Michela Murgia  Non sono d'accordo, perché a Roma i teatri "di cintura" fanno proprio questo lavoro, perché l'attività teatrale non è solo fare teatro, ci sono tanti teatri off dove vanno persone che hanno due soldi in tasca e non possono neppure permettersi di lasciare il proprio quartiere. 
Penso al lavoro che ha fatto in questi anni il Teatro del Quarticciolo, un teatro-biblioteca che dieci anni fa non esisteva. Anche grazie al lavoro di Ascanio Celestini e di Veronica Cruciani, c'è stato un lavoro di tessitura di relazioni sociali sul territorio. 
Non c'è solo il Teatro Argentina, dove va la borghesia colta. 
Ci sono anche dei luoghi come gli spazi occupati, penso all'Angelo Mai e a cosa ha fatto in questi anni. Anche per gli artisti che l'Argentina non l'hanno mai visto nemmeno col binocolo. 
Quando dici "teatro", dici molte cose. Parti dalla Scala e arrivi al "sottoscala", dove ci sono giovani che fanno una ricerca che magari non diventerà mai mainstream, ma all'interno di quel quartiere, all'interno di quelle nicchie cui si rivolge, hanno un valore enorme. Io ho assistito a cose pazzesche nelle periferie romane, con coppie di anziani e giovani coi piercing mischiati in un pubblico dove le sedie te le portavi da casa. 
Tu chiedi "quanto incide?". Non lo so, perché non so quanti sono questi teatri. Una cosa è certa, questi teatri sono morti come il teatro Argentina, solo che mentre l'Argentina è un teatro di interesse nazionale e quando finiranno le restrizioni riprenderà la sua vita, quegli altri luoghi saranno morti nel frattempo. Quindi non sto difendendo il teatro a oltranza, sto dicendo che c'è tanto dentro la parola "teatro". 

Al che Sofri ribatte che la televisione potrebbe diventare il più potente mezzo di diffusione della cultura (!!!)

Mi fermo qui. I teatri sono chiusi e lo spettacolo è morto. Fino a data ignota. Lo tolleriamo a denti stretti, sopportando l'iniquo trattamento di tutti coloro che gravitano attorno a questo mondo, che lo alimentano con anni, con una vita di lavoro. 
Da parole come quelle dette da Sofri capiamo perché tutto questo avvenga. Capiamo una cosa che offende e ferisce più della chiusura stessa, sentiamo quali parole vengono riferite al teatro e prendiamo atto della totale ignoranza del suo valore. 
Alla fin fine sai, con dolore, che nel fare teatro creando una "visione del mondo" non stai navigando contro ogni ideologia estremista, ma anche contro questa stessa sinistra ottusa e miope.

30 commenti:

  1. C'è davvero troppo poca attenzione per il mondo del teatro in particolare e dello spettacolo in generale. L'opinione pubblica e la politica condidera il teatro non indispensabile, come qualcosa di cui si può fare a meno, non rendendosi conto che i luoghi culturali e di aggregazione sono vita. Il fatto poi che non si considerino tutti i lavoratori che ruotano intorno a questo mondo è indice di pochezza mentale, avvilente soprattutto quando ciò arriva da persone che si definiscono di sinistra...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Si dimentica purtroppo che esiste tutto un universo "non blasonato", fuori dai canali più noti, politicizzati e pertanto sorretti dai governi (sebbene col minimo), esiste la realtà dei teatri fuori dalla cintura cittadina, che rendono vive le periferie, che magari tolgono i ragazzi dalla strada. E poi migliaia di lavoratori di settore. Due aspetti del tutto sconosciuti anche a tanta sinistra colta.

      Elimina
  2. Il fatto è che ci sono posti facili da chiudere. Le scuole, perché gli alunni ancora non votano, i teatri perché comunque chi li frequenta è minoranza e i lavoratori sono, appunto "non lavoratori" che hanno meno potere contrattuale.Purtroppo vedo la cosa da tutte le angolazioni. Cosa avrei fatto io al posto dei legislatori? Probabilmente, lo ammetto, avrei chiuso prima le cose più facili da chiudere perché comunque la situazione è drammatica (qui andiamo avanti con padiglioni aggiuntivi di ospedale tirati su dall'esercito). Quindi, ecco, mi trovo drammaticamente spezzata in due. Perché mi rendo conto che con più accortezza (tamponi rapidi a scadenza regolare, ingressi davvero scaglionati...) le scuole ad esempio potevano rimanere aperte (qui si è in DaD dalla seconda media fino a data da destinarsi, dicevano fin dopo Natale, ma oggi dicono magari fino a marzo...). Ai teatri, poi, di accortezze servivano anche meno. Però d'altro canto è più facile chiudere alcune realtà che altre (per infiniti e anche ingiusti motivi) e quindi torniamo al serpente che si morde la coda. Quindi mi fa una rabbia infinita che la cultura in generale sia stata considerata sacrificabile, anche se non so se io stessa avrei avuto la forza per fare altre scelte.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Il tuo discorso è validissimo ma strettamente legato alle peculiarità di ciascuna regione. Vivi in una regione falcidiata dal problema, tu stessa lo hai vissuto con una quarantena, l'ansia per i tuoi cari, quindi la percezione è del tutto diversa e me ne rendo conto. Non so darti torto. Poi esistono regioni in cui i livelli di controllo, il numero dei posti letto e dei ricoverati nelle terapie intensive hanno permesso al governo di ritenere in fascia "gialla" l'intera area. Le misure restrittive permettono tutta una serie di procedure e ne escludono altre. Noto, vivendo in Lazio, che in fondo hanno voluto evitare assembramenti di persone in determinate ore della sera, nei fine settimana, perché si sa come va a finire. Prima del nuovo Dpcm c'era stata una Roma affollatissima durante le domeniche. Hanno fatto bene. Sarei stata perfettamente d'accordo con la chiusura dei teatri nei fine settimana, non dal lunedì al venerdì, proprio per permettere la sopravvivenza di queste fragili realtà (che vivono essenzialmente nel fine settimana). Sarebbe stato già qualcosa. Perché le file ai botteghini sono rare e preziose. Insomma, è giusto quello che scrivi, Antonella, però credo che l'incidenza dei teatri, almeno nelle regioni di fascia gialla e arancione, sarebbe stata minima. Infinitesima. Mentre le code ai negozi sono sempre ben fornite.

      Elimina
  3. Presumo che Sofri non vada granché a teatro, dunque non è particolarmente interessato all'argomento e lo conosce solo in base ai pregiudizi personali che si è creato nel tempo.

    RispondiElimina
  4. Mi trovo d'accordo con Tenar che dice che probabilmente si è chiuso laddove era più facile chiudere. Comunque non penso che il problema sia tanto la cultura in sé, perché per periodi limitati si può fare cultura in mille modi diversi (ma è vero anche che bisogna disporre di questi mille modi diversi). Il problema è che il rischio principale è che poi determinate realtà, che magari hanno anche una funzione sociale oltre che culturale, poi rischiano di non aprire più. Non si dovrebbe nemmeno arrivare a porsi il problema di cosa sia opportuno chiudere. Se si decide che una cosa va chiusa per un periodo, quella cosa deve essere tutelata economicamente in modo che la chiusurà in sé sia solo una piccola fermata e non la distruzione di lavoro, fatiche, valore culturale, sociale, intellettuale. La chiusura non dovrebbe comportare i sacrifici e i rischi che comporta attualmente. Forse è utopico e di economia non ci capisco niente, ma mi chiedo perché debba essere così difficile gestire e distribuire il pecunio laddove serve, dal momento che praticamente tutti i paesi sono in questa situazione.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Tocchi uno dei punti della questione. Perché qui non si sta dicendo che questo intero comparto doveva restare fuori dalle restrizioni, per carità. Il problema è stato tutto nella mancata considerazione della ricaduta dei teatri aperti nei giorni feriali sulle statistiche della pandemia. In particolare dopo che la stragrande maggioranza delle realtà teatrali si erano munite di tutti i presìdi possibili per mantenersi ligie alle regole. Distanziamento, igienizzazione, obbligo di mascherina per tutta la durata dello spettacolo, sul palcoscenico gli attori almeno a un metro di distanza, tamponi frequenti, tutto era stato realizzato, anche con costi esorbitanti. Eppure, chiusi senza se e senza ma. E poi abbiamo assistito alle domeniche libere in cui una strada come Via Condotti a Roma sembrava San Gregorio Armeno a Napoli l'8 dicembre.
      I teatri e le realtà gravitanti attorno al teatro (le stesse nostre attività laboratoriali) sono stati chiusi e un contentino chiamato "ristoro" è stato pensato per migliaia di artisti e tecnici. Mio cugino riceve 600 euro al mese, in cambio deve restarsene a casa rinunciando a contratti e progetti con i quali si paga da vivere, e sui quali paga tasse salatissime. E per quanto riguarda le nostre realtà, quelle delle associazioni, non ci concedono neppure uno sgravio sulle spese fiscali, tutto procederà come sempre quanto a pagamenti.

      Elimina
    2. Ecco è vero, si parla di chiudere o non chiudere questo o quello e poi ci sono gli assembramenti e code kmetriche perché apre il nuovo primark

      Elimina
  5. Non conosco la questione quindi non intervengo nello specifico dico solo che un paese che non investe nella Cultura e che -covid o non covid- non cerchi di rendere più facile la fruizione della medesima è un paese che si avvia lentamente al suo declino.
    Forse sono andato fuori tema e di questo me ne scuso.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. No, il tema in fondo è proprio questo, Nick. L'Italia uno dei fanalini di coda nell'investimento in cultura.

      Elimina
  6. Carissima, il mio è un commento un po' elaborato e lungo e ti ringrazio subito per lo spazio.

    E' un problema che definirei storico e annoso quello di cui parli. Negli anni in Italia abbiamo avuto persone di sinistra molto valide per la cultura, sensibili e disponibili a riconoscere alla cultura un posto di rilievo nella nostra vita sociale e non (uno fra tutti Giulio Carlo Argan docente e critico d'rate di sinistra che ha fatto molto per la cultura anche come sindaco di Roma). Negli anni ho sempre notato che in Italia quando dicevo che lavoravo nella cultura in alcuni casi erano a dir poco meravigliati, ma nella maggior parte dei casi altre persone non lo consideravano nemmeno un lavoro vero e proprio...anzi pensavano che facevo "la bella vita" senza neanche prendere in considerazione la fatica del lavoro di per sé.

    Come una volta ti avevo detto ho avuto al fortuna di lavorare anche molto all'estero ed ho sempre notato che in paesi come Francia, Germania o in Svizzera quando sentono dire "italiano che lavora nella cultura" scatta subito un grande senso di rispetto perché non vedono solo la singola capacità ma pensano subito all'Italia come culla della cultura. A volte hanno anche una visione, come dire, un po' "romantica" dell'Italia ma non lo considero come un fatto negativo.

    Nel nostro paese l'errore principale negli anni passati (e che vedo anche oggi) consiste nel fatto che alcuni pensano che coloro che operano nella cultura vogliano creare la "cultura d'elite"...ma non è così. In Italia non c'è considerazione adeguata per coloro che lavorano nella cultura da tanto tempo. Non si pensa neanche che il settore coinvolge più di 50 mila persone a cui si aggiungono altri settori collegati sino a superare le 200 mila persone coinvolte. In senso più pratico e concreto penso ad esempio a 200 mila denunce dei redditi, 200 mila tassazioni di vario genere, tutto denaro che entra nelle casse dello stato. Quindi la cultura "produce" in tanti settori...eccome se produce! Così a prima lettura vedo e leggo in Luca Sofri una buona dose di indifferenza mischiata ad uno snobismo da paura. Quando qualcuno si erge ad alzare il dito accusatore contro gli altri deve sempre pensare a cosa sta facendo il quel momento, cosa sta dicendo, perché viviamo orami in un mondo dove le parole diventano sassi pesanti lanciati contro gli altri. Per me non lo considero neanche come uno di sinistra, anche se magari lui sostiene il contrario.

    Infine volevo dirti che Garcia Lorca pensava che "La cultura costa, ma L'IGNORANZA ci costa molto di più"...ma molto di più.
    Un salutone

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Il tuo commento, per il quale ti ringrazio, suscita in me due osservazioni.
      Anzitutto, sì, a parte qualche virtuoso esempio del passato (mi viene in mente anche Paolo Grassi e ciò che fece nella Milano nella quale fondo il Piccolo, meriterà un apposito post prima o poi), non ci sono slanci nella cultura italiana tali da far lontanamente supporre che sia un paese aperto e consapevole del suo valore. La politica ha col tempo messo le mani su larga parte del comparto teatrale italiano, e questa politicizzazione ne ha danneggiato il fine e l'esistenza. Una cultura politicizzata però avrebbe anche motivo di esistere se una vera sinistra rispondesse a uno dei grandi temi della propria ideologia: il sostegno ai progetti, la promozione di attività nelle quali la cultura arriva al popolo e ne diventa anzi motore integrante. Quello che mi ha stupito e indignato nelle parole di Sofri è la totale mancanza di questo, e come tu scrivi lo snobismo di certi intellettuali è doloroso nella misura in cui ignorano volutamente certe realtà. Al più potrebbe interessare loro l'editoria, sulla quale sono tentacolari, esercitano un certo maschilismo e conservano una leadership.
      La seconda osservazione riguarda quanto scrivi riguardo a quelle 200 mila denunce dei redditi. Per quanto sia in voga la becera massima del "con la cultura non mangi", la realtà ci parla di un ambito che invece produce reddito per lo stato. Chi riesce a campare del proprio lavoro di artista o di tecnico dello spettacolo, sa di trovarsi perennemente in condizioni precarie, ma tiene fede a un principio e si riserva di dichiarare ogni euro guadagnato, con obbligo di Partita Iva da libero professionista, com'è giusto che sia. C'è anche molto lavoro in nero, ma so per certo che laddove esiste questo è alimentato da condizioni che a volte vanno oltre il precario. Se con la mia associazione, com'è capitato, pago un professionista, dovrò corrispondere un terzo del compenso allo stato, e a sua volta il professionista dovrà dichiarare il suo reddito e corrispondervi una parte. Insomma, tasse doppie, magari per una prestazione di poche centinaia di euro, non di migliaia. Per non parlare dei costi dei miei spettacoli, la Siae, i diritti di traduzione e di messa in scena se si tratta di un testo protetto, poi le tasse allo stato come ciliegina ultima. Una guerra fra poveri. La cultura porta eccome guadagni allo stato. Fanno finta di non accorgersene, perché la cultura non deve esistere, tu non devi capirci niente di visione del mondo, di valori sociali, di futuro.

      Elimina
    2. Condivido in pieno ciò che hai scritto. Aggiungo alcune cose. La politica in Italia, da tanti anni, ha rovinato la cultura andando anche a lottizzarla in vari modi. Negli anni '60 pochi politici volevano fare gli assessori alla cultura (lo dico perché la buonanima di mio padre ha lavorato per più di 40 anni nei libri e me ne parlava a più riprese). Negli anni successivi la tendenza è cambiata per conquistare un nuovo settore sociale e politico, per acquisire spazi politici e lì è iniziata la deriva...

      ...in molti paesi europei (per esperienza diretta) le attività culturali sono largamente detassate con Iva al 4%, facilità ad accedere a sovvenzioni pubbliche o private con forti sgravi fiscali, patrocini di Enti Pubblici (Regioni, Comuni, Province) che arrivano anche a concedere spazi, teatri o locali pubblici in affitto ridotto o interamente sovvenzionato dagli stessi Enti pubblici. In Italia esiste questa formula, ma spesso con amici artisti ci sono trovati a non avere niente perché non avevamo padrini politici, non avevamo gli amici giusti, non portavamo acqua al mulino del politico di turno...

      ...in molti paesi europei esiste il salario garantito (Belgio, Francia, Germania, Olanda, Austria e paesi del nord Europa). Intendo dire che se un lavoratore dello spettacolo (a qualsiasi livello impegnato) perde il lavoro riceve dall'Ufficio di Collocamento il 70% dell'ultimo stipendio percepito, lo stesso che viene garantito ancora oggi in Francia. Quando riprende a lavorare il sussidio cessa di esistere. Ogni Ente mette da parte una quota per l'Ufficio di Collocamento per alimentare questo fondo di sussidio. In Italia tutti i grandi "strateghi" politici non hanno mai pensato di fare qualcosa del genere. L'unica riforma risale a non so quanti anni fa ma, come al solito, la burocrazia era tale che facevi richieste e sbattimenti vari per ricevere, si e no, 400 euro. L'italiana politica è stata incapace e inadeguata anche in questo.

      INSOMMA, ad un certo punto ho mollato l'Italia perché avevo raggiunto un tale livello di delusioni e tante disillusioni che ho deciso di lasciar perdere...

      ...ho un grande senso di stima e rispetto per coloro che come te operano nella cultura in Italia perché sembra come combattere contro dei mulini a vento tipo Don Chisciotte

      Elimina
    3. Copio e incollo la risposta di Flavia, una ragazza diciottenne che ha collaborato a diversi miei progetti:
      Ci sarebbe da ricordare che se il teatro è un luogo di élite, come dice questo signore, la responsabilità è tutta di chi governa e ha governato. Tutta di chi affama i teatri, di chi taglia sulla scuola che dovrebbe avvicinare all’arte e chi allontana sistematicamente dalla cultura. Di chi obbliga l’arte ad essere un’industria, costringe alla precarietà i lavoratori del settore e incoraggia un consumo individuale ed isolato dei prodotti artistici, come avviene con le varie piattaforme di streaming. Se i teatri sono luoghi di élite è perché costruire una società dove la ricchezza, culturale e materiale, è distribuita in modo diseguale è stata la principale finalità di tutti i governi. Se la domanda è “perché i teatri sono poco frequentati?” la risposta non è perché sono luoghi poco capaci di comunicare alle masse. La risposta é forse perché sono strumenti troppo potenti.

      Elimina
  7. Sarei arrabbiata e delusa anch’io: è assurdo e sono assurde le ragioni di un intellettuale come Sofri che dovrebbe essere il primo a difendere certe categorie e certi settori. Ma, purtroppo, come già ti ha detto qualcuno, l’arte e la cultura sono ambiti considerati di minore rilevanza, quasi fungessero solo da coronamento a tutti gli altri aspetti della vita e professionali. Come se non ci fossero lavoratori che campano di cinema, teatro, musei; mestieri da salvaguardare, maestranze... Boh, che mondo di ignoranti superficiali!
    Non ti dico di rassegnarti, perché parlarne e denunciare la pochezza non è mai uno sfogo inutile, tuttavia ti dico di aspettare che tutto torni come prima cercando di ridurre rabbia e stress, che farsi il sangue amaro, ahimè, non serve a niente. :(

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sai, Marina, fino a quando entri in punta di piedi in questo mondo, un po' per caso, un po' per destino come è capitato a me, e ti occupi di laboratori scolastici, lavori per qualche associazione, fai del teatro amatoriale con una compagnia di adulti, la cosa finisce lì. Non ti poni neppure il problema. Sei un fruitore, pratichi un po' di educazione teatrale, bon. Quando invece ci sei dentro perché cominci a ricevere riconoscimenti importanti, hai una tua associazione culturale, diventi responsabile di uno spazio, ti metti in contatto con dei professioni, e intanto ascolti l'esperienza di chi di questo vive, allora lo scenario cambia. In certo senso ci sei dentro. E vedi come va questo mondo martoriato da politiche sbagliate e indifferenza. Non si demorde, per carità, ma cascano le braccia. Questo scambio Sofri/Murgia mi ha aperto gli occhi sulla percezione dei teatri da parte di chi si millanta difensore della cultura. Abominevole.

      Elimina
  8. Fortunatamente Sofri non rappresenta la sinistra, prima di tutto perché la sinistra, come l'ho conosciuta io, ormai non esiste più e in secondo luogo perché in Italia la borghesia illuminata, che ha fatto una parte della storia della sinistra, non esiste più nemmeno lei, morta sotto le ceneri dello stato sociale immolato al consumismo di cui Sofri, per le sue note vicende, fa parte.
    Ti chiedi come mai la cultura i teatri siano considerati sacrificabili (mi pare di ripetere le parole del mio ultimo comizio) . Domanda legittima. La ragione sta nella scelta che abbiamo per così dire compiuto all'inizio della pandemia. salvaguardare la produzione, censurare cultura, istruzione, socialità. Così chiudono le scuole, i teatri, i luoghi di aggregazione, ma non le fabbriche che servono per produrre le merci che poi consumeremo, negli strusci dello shopping o nei ristoranti, ampiamente ristorati ma sempre postulanti. Perdona l'ironia o meglio il sarcasmo. Nel nostro paese abbiamo un'idea così oligarchica, aristocratica della cultura e del teatro perché non abbiamo mai compiuto la scelta di un reale e diffuso investimento per il popolo. Cultura popolare non significa una cultura "diminuita" ma una cultura accessibile che contribuisca alla crescita umana. Invece abbiamo avuto vent'anni di disinvestimento, il senso del ragionamento è chiaro, mi fermo qui. I luoghi sono realmente elitari nella misura in cui il sostegno pubblico è finalizzato a garantirli come luoghi di distinzione sociale. Se fossero per tutti, nessuno darebbe più alla Scala l'importanza che ha, fosse solo per fare bello sfoggio di brillantini tra l'elite del paese.
    Ma c'è nella pandemia un cambiamento: la sofferenza delle persone e l'uso dello streaming, supportato dalla televisione. Uno strumento che le donne e gli uomini dello spettacolo dal vivo guardano con immenso sospetto ma che può avvicinare molti all'idea di cultura diffusa di cui parlavo prima. E dunque in questo senso la televisione, che può amplificare e veicolare questi messaggi, svolge un ruolo. Quella pubblica, perché non vi è via di uscita, la cultura è libera e la libertà non si paga con lo sponsor. In ultimo, e devi perdonarmi per questo lungo commento, la coscienza di classe di questi lavoratori si sta formando ora, in questo contesto terribile e tuttavia con molta difficoltà e sospetto. Passare da una lunga inesorabile ma necessaria gavetta (anche qui, non per tutti la gloria) per arrivare a un cachet esso stesso oggetto di distinzione dal lavoratore "comune", altro che salario, a una condizione in cui improvvisamente ci rendiamo conto che la previdenza, la malattia, la protezione sociale dal disimpiego non sono contemplate ha scatenato giustamente un moto identitario di coscienza che io chiamo di classe. Ma il movimento è carsico e spurio. Immagina di fare da sé. E' corporativo. C'è una lunga marcia per conquistare i diritti di questi lavoratori, di coloro che stanno davanti e dietro il sipario. Ma questa marcia è partita. Se non si fermerà, dipenderà dalla coscienza delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo e forse anche un po' da tutti noi. Rivendicare il diritto alla cultura è un atto di grande consapevolezza, speriamo che questa crisi ce ne porti un poco. La sinistra? Con mio immenso dispiacere dico che nella migliore delle ipotesi starà a guardare. Di fronte alla complessità spesso non sa proprio cosa dire.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Cara Elena, grazie per il lungo e articolato commento, che contiene tutta la passione che metti nel tuo ruolo di sindacalista e conoscitrice del mondo dei lavoratori. Sai bene che questo settore è quello più singolarmente trascurato dai governi, se guardiamo alle motivazioni di questa cosa, vedo che tanta parte hanno tenuto gli enti teatrali stessi.
      La cultura era elitaria, sì, appannaggio delle classi borghesi, altrimenti dette anche "colte", pensa un po'. E fai bene a citare la Scala, con i brillocchi della Milano "bene" alle prime, il "fa chic" dell'esserci che non ha niente a che vedere col fruire le opere che si producono in quel teatro, ecc. Se la sono tenuta ben stretta la cultura le classi borghesi, quando puntavano tutto sui teatri blasonati perché fossero status symbol di certe élite. E tuttora, fuori dalla grave discussione sulla pandemia, in cui si sono accorti improvvisamente tutti che la cultura teatrale annega nell'indifferenza, ci sono ambienti in cui si guarda al popolo con la puzza sotto il naso. La musica stessa, quella classica che è fiorita nei grandi teatri, al tempo del Risorgimento arrivava al popolo ed era per il popolo, poi hanno chiuso le porte tenendosela appannaggio di una borghesia spocchiosa che non ha saputo proteggerla, piuttosto si è fermata a conservarla.
      La cultura è libera, hai perfettamente ragione, e dovrebbe arrivare a tutti ed essere di tutti. La crisi dei teatri è più nera in proporzione a quanto quelle élite si sono prestate ai maneggi della corruzione e al gioco della vetrina per far mostra di sé tipica dell'alta borghesia. Dici bene, Elena, se ne sono accorti adesso di quanto faccia pena questo mondo. Sono pessimista, non credo che questa crisi servirà a suggerire una riflessione seria e attenta sui problemi del teatro tutto. Forse, dico forse, sta portando a qualcosa che resterà in quanto reazione di chi sta producendo una risposta forte, ma attraverso il linguaggio dell'arte molto più che protestando coi picchetti nelle piazze.

      Elimina
    2. C'è il rischio concreto che assumendo come un dato incontrovertibile la chiusura "difensiva" dei luoghi di cultura e spettacolo nei prossimi anni più che di espansione e maggiore fruizione dovremo parlare di contrazione strutturale. Su questo dobbiamo vigilare e questa discussione, portata nel modo lucido ed equilibrato come hai fatto, senza dubbio aiuta. Grazie a te

      Elimina
  9. Condivido il pensiero di Tenar. Qualcosa bisogna chiudere e allora parti dalle cose più semplici da chiudere, che non significa meno importanti. Hanno chiuso i teatri, ma anche i cinema e pure le palestre e le piscine. A te giustamente interessa il teatro perché ti tocca da vicino, a me invece interessa la palestra per esempio, la mia sta rischiando di non riaprire per il 2021 perché affitti e leasing corrono lo stesso e i bonus non sono sufficienti. Ma capisco che qualcosa bisognava chiudere e se dietro a teatri, cinema, palestre e piscine ci sono dei lavoratori, dietro ai negozi c'è tutto il comparto manifatturiero italiano. Evidentemente chi sta alla ragioneria di stato avrà fatto i suoi conti nel calcolare quanto costa compensare il danno ad un comparto o ad un altro, scegliendo non solo il male minore (che resta comunque un male, su questo non ci piove) ma anche il percepito. Il problema è che i negozi vendono solidità tangibile, teatri, cinema, palestre e piscine vendono invece un servizio non del tutto tangibile (senza confondere il luogo col benessere che se ne ricava). Quel che mi chiedo invece è: non ci sono soluzioni alternative? Così come le palestre hanno portato parte dell'allenamento online, limitato ma sempre meglio di niente, non si poteva portare i teatri online? So bene che non è la stessa cosa, così come non lo è la didattica a distanza rispetto alla scuola, ma l'uomo è conosciuto per il suo spirito di adattamento nelle difficoltà. Confido in quello.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, il mio discorso tratta l'argomento teatro perché lo vivo personalmente, ma non mi è indifferente la chiusura degli altri ambienti, anzi. Diciamo che si faceva un discorso di ricaduta sull'idea di teatro come luogo di formazione, al di là di un servizio come palestre, piscine, piste da sci. Il discorso sul teatro diventa delicato proprio per l'indifferenza con cui è stata trattata la crisi, che se prevede dei "ristori", questi sono a dir poco ridicoli e risibili.
      Riguardo alle soluzioni alternative, sono già in atto. Io ho fatto cinque lezioni di laboratorio online, ma è molto molto faticoso, oltre che fuori natura. I ragazzi, che soffrono già per una didattica a distanza, si mettono davanti al monitor con molta fatica, la cosa tende a svilire perché il teatro mette in gioco movimento, emotività, partecipazione, fisicità che non hanno a che vedere con l'un due tre degli esercizi ginnici delle palestre. Molto teatro è passato online, concerti e balletti sono in streaming, compagnie creano corti su un tema, ecc. Sono tutti palliativi, una reazione che ci porta a dire "ok, non ci siamo arresi", ma capisci che mentre ti impediscono di stare coi ragazzi con un protocollo rigidissimo e divisi in due piccoli gruppi, fuori ci sono assembramenti lungo le "vie dello shopping". Mentre noi perdiamo risorse, motivazione, percorsi, ci sono ambienti in cui il virus corre bellamente. Non è giusto.

      Elimina
    2. Scusa, ma con "l'un due tre degli esercizi ginnici delle palestre" stai sminuendo un'attività che richiede, se fatta bene, altrettanti "movimento, emotività, partecipazione, fisicità", giudizio che magari dipende dalle palestre che hai frequentato tu. Anche per me allenarmi a casa, con un quarto di attrezzi, in uno spazio ristretto, senza l'entusiasmo e la motivazione del mio gruppo, a fissare un computer senza interagire e soprattutto senza alcun controllo da parte dell'allenatore su quello che sto facendo. E rode terribilmente anche a me sapere che mentre in palestra avevamo i nostri blocchi assegnati distanziati e i nostri attrezzi sanificati, la gente si accalca per negozi senza alcun controllo. Ma anche le palestre sono considerate una minoranza "ludica" sacrificabile. Poco importa se a qualcuno portano benessere psico-fisico tanto quanto (per me di più) che una passeggiata in centro.

      Elimina
    3. Mi sono espressa male, perché anche nei laboratori teatrali c'è una parte introduttiva fatta di un due tre di riscaldamento. Se penso alla differenza fra gestire il riscaldamento prima di passare ad esercizi di mimo e altro, mentre i primi possono essere gestiti a distanza, tutto quello che viene dopo è impossibile realizzarlo pienamente attraverso un monitor. So di molte scuole di preparazione atletica che sono andate avanti anche a distanza, scuole di danza, di ginnastica ritmica, di ginnastica a corpo libero. Un laboratorio teatrale invece ha grandissimi limiti a distanza, e quasi diventa impossibile farlo. Anzi, farlo a distanza è un qualcosa che pertiene l'emergenza, non ha nulla a che vedere con un vero laboratorio teatrale in sé.

      Elimina
  10. La chiusura dei luoghi di aggregazione per la pandemia di certo ha nuociuto al teatro, ma il teatro si è degradato oserei dire suicidato da solo per la povertà e la banalità di idee e proposte che negli ultimi decenni ha esposto. Denaro e sforzi spesi malamente per spettacoli di quart'ordine presentati come momenti culturali, si certo cultura del vuoto.
    Un paese come il nostro con una grande, un'immensa tradizione culturale che non sa fare più ne cinema ne teatro, questo è il dramma del settore dello spettacolo in Italia, basterebbe confrontarlo con ciò che avviene in Francia e in Germania per capire il nostro degrado altro che la pandemia.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sul cinema concordo in pieno. Il cinema italiano è triste a dir poco. Le poche volte, rarissime anzi, che mi decido a vedere un film italiano me ne pento dopo una ventina di minuti. Ho seguito con molto interesse due produzioni importanti in cui il protagonista era un mio ex allievo (Mio fratello rincorre i dinosauri e Padrenostro).
      Riguardo al teatro, non sono del tutto d'accordo. La vera piega è che quello italiano è un teatro politicizzato, mal gestito e traballante. Di produzioni valide ce ne sono, ma fanno eco quelle supportate dalla politica.

      Elimina
  11. Un teatro che espone idee politiche non mi dispiace, anzi ci fosse una satira politica di qualità, quello che risponde a potentati politici si perché può solo deprimere e rendere arido l'ambiente culturale

    RispondiElimina
    Risposte
    1. E infatti è un teatro del secondo tipo che citi. Esposto politicamente è un teatro sociale che anche a me piace molto.

      Elimina
  12. Posto eccellente. La verità è che vado a teatro per divertirmi, non mi interessa se si inchinano politicamente e così via, si è sempre detto che c'è libertà di espressione, ed è normale che si lamentino, con la pandemia quando si tratta di elaborare una licenza di apertura (licencia de apertura) mettono molti problemi e costa un po' più di soldi, e per di più hanno anche i loro tagli e li emarginano, speriamo che cambi e gli diano il valore che il teatro merita.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Purtroppo non credo avverrà mai, sono molto pessimista a riguardo. Il teatro viene inteso o come quello professionistico oppure amatoriale, fatto da buontemponi che nel dopocena vanno a divertirsi a fare quattro barzellette. Ma poi invece c'è tutto un altro teatro che sfugge a qualsiasi definizione e che ha un valore sociale immenso.

      Elimina