lunedì 10 maggio 2021

Trilogia della frontiera - Cormac McCarthy

Cavalli selvaggi - Incipit: La fiamma della candela e la sua immagine riflessa nello specchio si contorsero e si raddrizzarono quando entrò nell'ingresso e di nuovo quando chiuse la porta. Si tolse il cappello, avanzò lentamente facendo scricchiolare il pavimento di legno sotto gli stivali e rimase in piedi, vestito di nero,  davanti allo specchio scuro nel quale i pallidi gigli si protendevano dall'esile vaso di cristallo. 

Oltre il confine - Incipit: Quando si spostarono a sud della Grant Country, Boyd era un bambino e la nuova contea chiamata Hidalgo aveva solo qualche anno più di lui. Nella terra che avevano lasciato erano sepolte le ossa di una sorella e della nonna materna. La nuova contea era fertile e selvaggia. Si poteva cavalcare fino al Messico senza mai incontrare una staccionata. 

Città della pianura - Incipit: Si fermarono sulla soglia, pestarono gli stivali a terra per scrollare via la pioggia, sventolarono il cappello e si asciugarono l'acqua dalla faccia. Fuori, nella strada, la pioggia sferzava l'acqua stagnante facendo ondeggiare e ribollire il verde e il rosso sgargianti delle luci al neon, e le gocce pesanti danzavano sui tetti d'acciaio delle automobili parcheggiate lungo il bordo del marciapiede. 

Visto che non mi spaventano i tomoni, mi sono regalata questa lettura di più di 1000 pagine sulla fiducia, conoscendo la mirabile "penna" di Cormac McCarthy, già recensita qui
Quando decidi di leggere tutto quello che un determinato autore ha scritto, percorri anche quella sua parte di produzione che sembra esulare da quella principale, così mi era sembrato per questa trilogia.
In realtà McCarthy ha attraversato in tanta sua scrittura l'epopea dell'ovest americano, ma in modo originale. Uno di quelli che non mi lascerò sfuggire sarà Meridiano di sangue

Questo non è l'ovest dei tanti film di Leone, Eastwood, Ford o Peckinpah, non solo perché è quello del XX secolo. Resta deluso il lettore che si aspetti duelli al sole, attacchi a carovane, mandriani e inseguimenti ai pellerossa. Il cliché di quelle cittadine arse dalla canicola del deserto, mentre le musiche di Ennio Morricone descrivono una nostalgia rarefatta, qui è pressoché inesistente. 
McCarthy racconta il vero ovest, quello degli anni Trenta, il prodotto di una Storia che ha devastato generazioni di texani e messicani, il racconto di un confine e della volontà di oltrepassarlo alla ricerca di una sfida per la vita. 

C'è qualcosa che accomuna i tre romanzi, come si deduce nel passaggio al terzo dei tre. 
Il John Grady di Cavalli selvaggi e il Billy Parham di Oltre il confine, giunti da due esperienze molto diverse eppure anche simili, lavorano nello stesso ranch in Città della pianura
Città della pianura è di fatto come una "resa di conti", il bilancio di esperienze, scelte, deviazioni dal percorso iniziale. John e Billy, sebbene giovanissimi, hanno vissuto. 
Il costo delle loro esperienze è stato altissimo; dei due, John è quello che, di qualche anno più giovane, è ancora capace di proiettare verso un orizzonte ideale un progetto per sé, mentre Billy è ancorato a un presente che lo vede disilluso e più forte, smaliziato e ormai avvezzo al lato oscuro degli uomini.



John possiede l'ingenuità dei suoi anni e ha l'ardire di sfidare l'uomo potente e corrotto che "possiede" la prostituta di cui si innamora. La ragazza, della stessa bellezza di Alejandra, la ricca figlia del proprietario del ranch in cui si imbatte nel primo romanzo, è il nucleo di una vita ideale, incarna il desiderio di mettere radici, l'amore che vivifica e rende libero l'uomo.
Billy assiste al suo disfacimento guardando all'amico John come al fratello perduto, quel Boyd che nel secondo romanzo affronta la vita senza dosare forze e rischio. 
I due ragazzi sono l'emblema di una giovinezza che si consuma nella legge non scritta di chi, prima di loro, ha inventato regole che in mondo selvaggio assumono una certa logica, ne sono l'inevitabile. 

Il "campo lungo" di McCarthy.
C'è qualcosa di epico nel racconto di questo ovest. Quella terra di confine, riarsa e inospitale, puntellata di piccoli villaggi di adobe e cittadine dal ritmo lento, è un luogo in cui i limiti vengono di continuo spostati più in là nel cammino dei giovani protagonisti.
John e Billy si muovono lungo segmenti irregolari, a volte devono tornare sui loro passi, a volte deviare dalla strada tracciata, e ogni movimento corrisponde a un mutamento di spirito, a una lezione appresa.
L'umanità in cui si imbattono nel loro viaggio è varia, dello stesso colore delle strade polverose, si muove come al ralenti, ruvida come gli stracci che indossa. Un vecchio inchiodato a un letto arrugginito e aggrappato al ricordo di un passato forse solo immaginato, l'uomo a cui il nemico ha strappato gli occhi, che impara l'odore diverso delle cose e degli uomini, il pastore che dona rifugio e racconti di come quelle città fossero, una compagnia di guitti che il destino scompagina e disperde, nativi Comanche che compaiono nella pianura trainando un vecchio aereo, e tanti altri. 
A proposito dei nativi, c'è un passaggio mirabile:
Quando soffiava il vento da nord si sentivano gli indiani, i cavalli, il fiato dei cavalli, gli zoccoli foderati di cuoio, il tintinnio delle lance e il perpetuo frusciare dei travois trascinati sulla sabbia come enormi serpenti, i ragazzi nudi che montavano i cavalli bradi con la spavalderia dei cavallerizzi da circo, spingendo altri cavalli bradi davanti a loro, i cani che trottavano accanto con la lingua fuori e gli schiavi seminudi che marciavano a piedi oppressi da pesanti fardelli e soprattutto la lenta litania dei canti che i cavalieri cantavano in viaggio; un popolo e il suo spirito che attraversavano in coro sommesso il deserto pietroso verso un'oscurità perduta alla storia e a ogni ricordo come un graal contenente la somma delle loro vite violente ed effimere. 
(Cavalli selvaggi)
L'umanità di confine, nel quale si mescolano rituali e realtà diverse e a volte contrastanti, è accomunata dal senso dell'accoglienza al viandante, dalla condivisione della tavola e delle poche cose. 
McCarthy conosce a fondo la Storia di questo perimetro di mondo, dissemina il racconto di riferimenti a un passato in cui gli uomini si sono fatti lupi gli uni degli altri, gli uni hanno messo gli altri lungo un muro e hanno sparato senza pietà, mentre i cani, questi fantasmi ridotti pelle e ossa, vagano inquieti e annusano e leccano anche il tanto sangue versato. 
Il cane è un randagio senza meta, infingardo e imprevedibile, e poi il lupo, o meglio la lupa che Billy cattura con fine maestria quando è ancora un ragazzo, imparando a leggerne le mosse, l'intelligenza, è l'altro animale di questo confine selvaggio. 
Correvano nella pianura tormentando le antilopi che si muovevano come fantasmi nella neve disegnando cerchi; tutt'intorno si alzava una polvere bianca al chiaro di luna e il fiato degli animali saliva pallido come fumo nell'aria fredda, come se dentro di loro ardesse un fuoco. Scesero nella valle seguendone la curva e poi si allontanarono nella pianura, finché non furono che minuscole figure in quel biancore vago; poi scomparvero. 
(Oltre il confine)
I cavalli invece sono esseri perfetti, eletti, possiedono una spiritualità e una lealtà indiscusse. John è uno che sussurra ai cavalli, riesce a stabilire con essi una relazione di reciprocità totale. I cavalli rendono possibile il viaggio e anzi ne sono il motore, poiché tutto parte nei romanzi dal rispetto e l'amore verso queste fragili creature. 
Lo sguardo di McCarthy assomiglia a quello del regista dei grandi western, sostanziando un "campo lungo" mediante descrizioni essenziali, attraverso lo sguardo di questi giovani sempre puntato verso un orizzonte sul quale si aspettano di vedere una meta, qualcosa per cui valga la pena. 

La metafisica di questi romanzi.
Prendo a prestito un termine della quarta di copertina per dedicare le mie ultime osservazioni a un ingrediente originale sapientemente disseminato dallo scrittore nella narrazione. 
I tre romanzi sono ricchi di riferimenti al senso della vita, ai limiti dell'uomo, al suo dibattersi dentro un mondo su cui lascia impronte leggibili a coloro che verranno dopo di lui. C'è una lezione irrinunciabile da imparare in questo vivere a volte ai limiti del possibile, muovendosi spesso lungo una linea percettibile perché già tracciata da altri. 
La linea è anche un confine labilissimo fra la cosa giusta e quella sbagliata, fra un progetto realizzabile e un disegno azzardato, fra la sopravvivenza e la sfida alla morte. Il tutto in un mondo che spesso sceglie la violenza come sola lingua possibile, ma anche come un rituale scolpito in quella amara terra.
La violenza inflitta a filo di lama, quella inflitta con un colpo di fucile o usando il lazo con maestria, si presenta nel romanzo anche come unico atto possibile. 
McCarthy offre uno scenario in cui impariamo le regole di quel mondo, e le accettiamo. 

Alessandro Baricco, nella prefazione ai romanzi scrive: "Ogni tanto qualche scrittore riesce a cambiare le carte in tavola. A creare nuovi paesaggi. Non si limita a scrivere libri belli. Scrive libri che sono mondi radicalmente inediti. Spalanca la geografia della scrittura". 

In questa nuova "geografia della scrittura" il movimento si fa lento, il tempo si dilata e l'uomo impara a seguirne i ritmi, diventando un apprendista della vita. I due giovani protagonisti diventano uomini in questo tempo sospeso e rarefatto.  
La tecnica narrativa è quella del solito McCarthy, quella che ci lascia interdetti dinanzi all'apocalisse de La strada, eppure questa volta è come un'argilla che prende un'altra forma, a servizio di questo perimetro di territorio riarso e pietrificato. 
La metafisica della frontiera si sostanzia nelle graffianti parole di una saggezza inaspettata, in dialoghi essenziali, crudi, nudi e intensi, disseminati di termini spagnoli dietro i quali dobbiamo indovinare il significato, una lingua evocativa e fremente di ritmo, nella quale gli eroi si sentono a loro agio.

Questa frontiera è anche il luogo di approdo di ogni epica del passato, come ci svela lo spiazzante finale. È l'ultimo capitolo di una storia di uomini ormai vecchi e ingobbiti, che trascinano stancamente i piedi in un epilogo senza eroi, in città moderne dalle quali non è più possibile guardare il cielo notturno e ravvisare mappe nel firmamento. 
La frontiera diventa un non-luogo simile a mille altri e in questa omologazione soccombe l'ultimo lampo del ricordo di un senzatetto, l'ultimo degli eroi dell'ovest.

Grandioso McCarthy, che mai delude.

Conoscete qualche romanzo dedicato all'epopea dell'ovest americano? Vi piacciono i film western e i fumetti di questa ambientazione? 

28 commenti:

  1. È il più grande, c'è poco da aggiungere. Io comprai il primo ("Cavalli selvaggi") perché faceva il titolo faceva il verso a "Sentieri selvaggi" di John Ford.

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    1. Non faccio fatica a pensarlo come "il più grande", perché di fatto è condivisibile. Essere il più grande oggi significa saper raccontare con una maestria tale da sfuggire a ogni possibile comparazione. Non è neppure "perfetto", è uno scrittore di immenso talento che coniuga racconto e tema. McCarthy, un maestro della narrazione.

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  2. Per conto mio è la miglior opera di questo ultimo trentennio: per stile, per tematiche, per la capacità di catturare il lettore. Lessi qualcosa al riguardo di Oltre il confine su un almanacco di Tex Willer: non spiegava che si trattava di una trilogia ma i n seguito recuperai e lessi più di una volta il tutto. Be' nella sua opera ci trovo Hemingway, Faulkner e Steinbeck tutto insieme.

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    1. Ciao, Ferruccio. Ho googlato mettendo insieme McCarthy e Tex Willer, e sono venute fuori voci che sono una delizia (a parte il riferimento al tuo blog, Otium), fra cui la definizione di western post-moderno, che penso si attagli perfettamente alla trilogia. Mi piace sul tuo blog il post in cui riproduci diversi piatti citati nei tre romanzi. Grazie per questo confronto. :)

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    2. Grazie Luz, la Trilogia credo si tratti davvero di western post moderno. Non mi ero mai accorto di questo riferimento del mio blog che arriva da facebook.

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  3. Ehh la frontiera, la frontiera...quanti film ho visto da bambino, quando la RAI ogni settimana faceva il ciclo sul west...John Ford, Glen Ford, Henry Fonda, Gary Cooper, John Wayne giusto per fare qualche nome. Tutti uomini, a parte Calamity Jane pseudonimo di Martha Jane Canary-Burke.

    Poi però negli anni '70 abbiamo visto l'altra faccia del west, quella truce e cattiva, quella che faceva strage degli indiani d'America, quella di "Soldato Blu" con Candice Bergen, "Piccolo Grande Uomo" con Dustin Hoffman, il west dei registi come Arthur Penn, Ralph Nelson, Sam Peckinpah quello di "Pat Garret e Billy the Kid" con Bob Dylan sino al film "I Cancelli del Cielo" del 1980 di Michael Cimino o "Balla coi Lupi" con K. Costner. Registi e attori che contestavano quel passato "falsamente eroico", anzi l'eroismo era pura demagogia.

    Io direi che la vera e nuova frontiera è stata quella citata da John Kennedy all'inizio degli anni '60, che non è più il far west e non è solo lo spazio e le missioni stellari. La nuova frontiera è scoprire se stessi e il libro e l'autore di cui hai scritto in questo post ne è un degno rappresentante (volente o nolente) insieme a Hemingway, Faulkner e Steinbeck e su questo mi associo al commento qui sopra.

    Prima delle scoperte fatte da Colombo nel nord e nel sud America esistevano 500 popoli, 500 nazioni che l'America ha comunque scoperto e catalogato dopo la strage. Oggi ne rimangono poche migliaia. Il Canada è l'unico che ha cercato di capire il passato, ha cercato di scusarsi e di risarcire in vari modi (materialmente e moralmente) gli indiani e questo fa un po' onore a quella nazione anche se con tanto ma tanto ritardo.

    Che dire di più? Some sempre un bel post che leggo volentieri
    Un salutone e alla prossima

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    1. Eh sì, si passò da quei racconti hollywoodiani, finti, con gli "indiani" con le trecce e le piume in testa, con "eroi" repubblicani come Wayne, al racconto della verità, in cui l'ovest diventava una polverosa e inospitale linea di frontiera in cui lo spettatore non avrebbe mai più visto un immaginario e falso Eldorado, quanto il luogo della disfatta di tutti gli uomini, dell'impossibilità di una giustizia. L'ovest americano, che qui è un confine in cui si scrivono destini di uomini alla ricerca vana di un posto nel mondo, fosse anche un luogo-non luogo in cui abitare significa muoversi, è proprio questo. Lo è sempre stato.
      P. S. Conosco bene quella Martha Jane Cannary, è un personaggio del mio romanzo storico. :)

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    2. Ma dai? Non lo sapevo. Scusa che titolo ha il romanzo?
      Un salutone e ancora grazie per le tue visite

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    3. "Esther Dunn". Ma ancora deve essere pubblicato.
      Spero di farlo entro l'anno. :)

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    4. Beh, allora ti auguro il meglio, non deve essere una impresa facile

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    5. Non lo è, e io non sono mai convinta del tutto che sia finito e rifinito a dovere. Faccio fatica a presentarlo a un editore, pur consapevole di voler andare in altre direzioni, che non posso percorrere senza prima pubblicare questo.

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  4. Fra l'altro il Pensierino della Settimana che ho scritto è dedicato proprio a Steinbeck...
    Ariciao

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  5. Che capolavoro!
    Io quando penso a questa trilogia o a Meridiano di sangue quasi piango.
    Se non lo hai letto ti consiglio Lonesome Dove di McMurtry, probabilmente il più grande romanzo sul west ed anche Il grande cielo di Guthrie, un altro grande classico sulla frontiera.

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    1. Grazie, Pirkaf, per questi suggerimenti. Lonesome Dove è un romanzo che intendo leggere, coglierò il suggerimento di Guthrie. Il mio timore è di non trovare quanto McCarthy sa donarti col suo modo di narrare l'ovest. Ma sono curiosa di conoscere sempre più nuovi autori (nuovi per me, ovviamente).

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  6. Non ho letto nulla di McCarthy, ma capisco l’esigenza di leggere tutto di uno scrittore, mi è capitato con Cesare Pavese quando ero giovanissima e mi è ricapitato con Carofiglio.
    Mi piace la definizione di “geografia della scrittura” da proprio l’idea di costruzione di un mondo.

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    1. Sai che ho letto due libri di Carofiglio il mese scorso? Mi piace la sua scrittura.
      Quell'espressione piace anche a me.

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  7. Come sai, non sono un’appassionata del genere, nel senso che non mi guiderebbe l’istinto verso letture a sfondo western. Però sentirne parlare da persone di fiducia mi avvicina a queste storie, che sicuramente sono belle, se in molti ne parlano come di autentici capolavori.
    E niente, prima o poi, farò la prova. Comincerò da “La strada”, però, come ti dissi a suo tempo. Ho voglia di conoscere McCarthy.

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    1. Non ti consiglierei la trilogia, ma ribadisco il mio consiglio, che hai già accolto, di leggere La strada. Sono certissima che ti renderà una estimatrice di questo straordinario scrittore.

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  8. In tutta sincerità mi ispira di più La strada. Avendo vissuto in Texas, in mezzo al nulla, alla fine dei lontani anni Novanta, d'altro canto, questa trilogia potrebbe risultare molto interessante.

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    1. Dai, hai fatto perfino l'esperienza di vivere nel deserto del Texas. Una ragazza piena di risorse. :)

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  9. La trilogia è quello che gli americani chiamerebbero "a fucking masterpiece"! E direi che mai come stavolta ne avrebbero tutte le ragioni.

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    1. Sì, sarebbe l'espressione giusta per descriverlo. XD

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  10. Devo ancora leggere il terzo romanzo della trilogia, ma basta poco per capire di trovarsi di fronte a un grande autore, di quelli che rimangono impressi nella memoria del lettore e nella storia della letteratura.

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    1. Anche tu estimatrice di questi "western" originalissimi. Mi fa piacere. :)

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  11. Ti ha proprio preso la lettura della trilogia! È un autore che conosco poco, quindi ti ringrazio per avermi invogliata con la tua bella recensione a conoscerlo meglio.
    Buona serata!

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    1. Sì, mi ha conquistata. Grazie per averne apprezzato questa recensione. :)

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  12. Non sono un appassionata di western vecchio stile, anche se sono i film preferiti di mio padre. Gli spaghetti western sì, perché hanno quella comicità che adoro (uno su tutti, Lo chiamavano Trinità), anche alcune rivisitazioni moderne (I magnifici sette del 2016 per dire) e Tarantino che fa storia per sé (The Hateful Eight e Django Unchained). Ma questo Cormac McCarthy dev'essere notevole se è saltato dall'apocalisse al western, o viceversa, con così mirabile risultato. Non so se un giorno lo leggerò, penso che prima inizierò comunque da La strada. :)

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