sabato 7 maggio 2022

Il treno dei bambini - Viola Ardone

Incipit: Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. Hanno pigliato le abitudini loro, hanno fatto altre strade, altri giochi. E quando arrivano a me, che ne sanno di come cammino io e di dove voglio andare? Si devono abituare mano mano, ma intanto il piede cresce, le scarpe si fanno piccole e stiamo punto e a capo. 

È bello quando una scrittrice oggettivamente brava incontra una buona idea. Magari una storia sconosciuta ai più, una di quelle talmente significative da lasciare stupiti per il fatto di saperne solo da un romanzo. Questo è un libro fortunato, tradotto in 25 lingue, celebrato in molti paesi per l'originalità e la commozione che suscita. 

Partiamo dalla storia che l'ha ispirato. 
Fra il 1945 e il 1947, nell'immediato dopoguerra, il Partito Comunista Italiano organizza i "treni della felicità", un'iniziativa benefica con l'obiettivo di portare bambini del sud e del centro in regioni del nord, dove famiglie li accolgono per tutto l'inverno, senza far mancare loro ogni comodità: vitto, alloggio, istruzione, abiti, doni. In un meridione già vessato da arretratezza e povertà, la guerra aveva inasprito problemi e fame, i bambini nati durante la guerra o poco prima versavano in condizioni estremamente disagiate. 
Inizialmente promossa dall'UDI - unione delle donne italiane - l'iniziativa si espande e raggiunge 70.000 bambini. Negli anni successivi, grazie all'apporto di Anpi e Cln, si arrivò fino al 1952.
Il periodo di ospitalità è lungo, di diversi mesi, e si trattò di un vero e proprio affido temporaneo. Molti bambini e bambine non tornarono più a vivere con le loro famiglie d'origine. 

Cercando in rete, mi sono imbattuta in altre notizie molto interessanti. L'attenzione verso i bambini era cominciata già nel primo dopoguerra, all'interno di un vasto programma di assistenza sociale che partiva dalla constatazione della partecipazione attiva dei bambini alle dinamiche della guerra. 
Si tratta della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, approvata all'interno della Società delle Nazioni. Così come Save the Children, che viene fondata nel 1919 a Londra.
Si sa, questi diritti furono poi ampiamente violati durante il ventennio fascista, quando ai bambini si affidarono ruoli da "balilla" con tanto di divisa e moschetto e poi l'infanzia fu negata, precipitata nella guerra e in ruoli di partecipazione alla causa bellica. Un esempio su tutti, 217 bambini uccisi solo nell'eccidio di Marzabotto, ma anche i 180 uccisi dalle bombe alleate cadute su una scuola vicino Milano. I bambini sopravvissuti diventano veri e propri reduci di guerra. 

La storia di Amerigo.
Il treno dei bambini è la storia del piccolo Amerigo, bambino napoletano dei quartieri popolari, orfano di fratello e di padre sconosciuto, aggrappato a una madre che non sempre sa donargli affetto e calore.
È anche, in modo indiretto, la storia sofferta di questa madre, Antonietta, una figura dolente, malinconica, dura. Una donna bella con una relazione clandestina, che vede nell'offerta dei comunisti la possibilità di offrire al proprio figlio nutrimento e accoglienza, e di tirare il fiato su una bocca da sfamare. Parca di parole e carezze, Antonietta è una madre e una donna sconfitta, la vita non è generosa con lei e non le insegna a profondere calore umano al proprio bambino. 
... mi viene il dubbio che sia stato tutto un equivoco fra me e te. Un amore fatto di malintesi... (così l'Amerigo di molti anni dopo)
Si coglie in tutta la storia lo struggente attaccamento di Amerigo a lei, la sua fame di affetto che gli fa apprezzare quel poco che lei è in grado di dargli. Per esempio quella pasta alla genovese nella quale lui vuole incessantemente vedere un atto d'amore. 
L'orizzonte di Amerigo sono i vicoli di Napoli, l'arte di arrangiarsi che impara fin da piccolo, l'inclinazione all'imbroglio innocente. Napoli palpita nei suoi pensieri, nelle parole, come usa dire la Ardone, nella sua "voce". Così come palpita in personaggi a volte grotteschi, a volte profondamente umani come la Pachiochia, la Zandragliona, Capa 'e Fierro
Lo so, è l'ennesimo romanzo scritto in prima persona, ma la "voce" di Amerigo mi convince, è verosimile, ricalca usi e movenze del popolo, conserva tutta la genuina freschezza dell'infanzia. 


Un'immagine dell'epoca 

Amerigo viene risucchiato nell'evento della partenza all'improvviso, non si fida, le dicerie sono oltretutto tante. I comunisti, secondo le voci, vogliono portare i bambini a morire, gli tagliano la lingua, le mani, li portano in Russia. L'eco delle dicerie investe i vicoli, eppure le madri portano i loro figli ai treni, scelgono di fidarsi, perché ogni altra cosa sarebbe migliore di quella vita. Le madri sentono che in quella partenza c'è realmente un'opportunità. 
Dopo il viaggio, la Ardone sceglie di narrare l'accoglienza. L'orizzonte è cambiato, ci sono case, un letto, vasti campi coltivati, profumi di pane fatto in casa, regalini, feste di paese, abbracci, buoni voti a scuola. L'Emilia, prevalentemente agricola e per questo capace di rispondere subito al bisogno,  abbraccia questi figli della fame e lo fa come una madre opulenta e generosa. 
Ci sono colori e sapori nuovi da scoprire, la nebbia, la neve, la mortadella, il gorgonzola. La scoperta per Amerigo è una conquista e un approdo. Il fianco presso cui rifugiarsi e trovare calore. 
Lascio a chi vorrà leggerlo scoprire questo scenario, confrontarlo con il precedente, vedere e quasi "toccare" questa realtà che nasce dalla Storia e si accumula alle tante storie perdute di un passato che abbiamo il dovere di conoscere. 
C'è una partenza e un arrivo, un viaggio in treno che costituisce il cambiamento, il riconoscimento dei propri reali bisogni. In un bambino tutto questo ha una cassa di risonanza in cui l'eco diventa un boato, nascono e si mescolano sentimenti e bisogni cui non può far fronte, non ne ha gli strumenti. 
I sentimenti di Amerigo subiscono di fatto un corto circuito. Dopo aver visto quell'orizzonte lui non sarà più lo stesso. Significativo il ritorno alle scarpe nell'Amerigo adulto, quando la narrazione si sposta alla seconda persona, quando l'uomo cercherà un'altra voce, perduta per sempre. 
Osservo la mia mamma attraverso il finestrino. Lei si stringe nello scialle, in silenzio. Il silenzio è arte sua. Poi il treno urla forte, più forte della maestra con la scucchia quando scoprì lo scarrafone morto che le avevamo messo sotto il sillabario. Allora le mamme fuori dal treno cominciano a muovere le braccia avanti e indietro e io credo che si stanno salutando. Invece no. Tutte le creature sopra al treno si sfilano i cappotti e li buttano dai finestrini per darli alle mamme. Questo era il patto: i bambini che partono lasciano i cappotti ai fratelli che restano, tanto i comunisti ce li danno un'altra volta. 
Questa non è una storia dalla quale aspettarsi un lieto fine. Ed è giusto così, perché tutte le storie di emigrazioni sono storie di dolore, generano adulti irrisolti, perennemente in bilico fra il prima e il dopo. Lo posso percepire sulla mia stessa pelle, anche se in minima parte rispetto a questa storia. Nella mia esperienza di donna che dal sud si è spostata a 26 anni al centro Italia. Il passato resta indietro, cristallizzato, eppure sempre ancorato, ed è inevitabile, a un presente che non è come quello di tutti gli altri, di quelli che nascono e vivono nello stesso posto. 
Quando si torna nei luoghi del passato, le forme, gli odori, i colori, ti risucchiano indietro, e avverti come un corto circuito di sentimenti, uno strano miscuglio di attrazione e repulsione. 
Leggere questo libro bello e significativo mi ha donato anche questa riflessione. Lo consiglio. 
P. S. Questa è la mia 100esima recensione. :)

Vi è capitato di leggere storie di emigrazione? Sapevate dei "treni della felicità"? Se i vostri genitori o voi vi siete spostati da regione a regione, avete la stessa sensazione da migrante qui sopra descritta? 

7 commenti:

  1. Buona centesima recensione intanto, cara Luz e complimenti per tutte quante che leggo sempre con attenzione e golosità. Come ho fatto in riferimento a questa storia che andava raccontata. La scelta di mandare i bambini al nord fu il primo atto concreto per la ricostruzione e il ricongiungimento di un paese spezzato, anche dalla guerra. E poi le voci dei bambini. Le adoro e lo sai. In quella pasta alla genovese, che non ho mai mangiato, ci vedo tutta la speranza che ogni bambino povero ha vissuto in un po' d'amore e in un futuro migliore.
    Grazie per queste tue parole. Buona domenica

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    1. Certamente tu sapevi di questi "treni della felicità", Elena. Nel libro emergono anche momenti non proprio felici per le donne del partito, che si vedevano relegate a ruoli secondari. Questa iniziativa fu una loro conquista e fu bellissima. Se la guardiamo come opportunità, ha creato senz'altro delle possibilità concrete per quei bambini e bambine, e non è poco. Grazie a te per il tuo interesse verso le mie recensioni, che come sai amo scrivere. :)

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  2. Questo è un libro davvero interessante. Mi segno il titolo. Nonostante io sia del sud non conoscevo i treni della felicità. Anche se l’iniziativa era buona, in realtà, è di una tristezza infinita perché causa del distacco tra madri e figli. Quanto hanno sofferto queste madri che hanno preferito allontanare i loro figli per dare loro una vita migliore. Tu sei del sud, non so se succedesse anche da te, ma qui in Campania era un fenomeno molto diffuso in passato: mi riferisco a tutti quei bambini poveri nati in famiglie molto numerose che venivano affidati alla buona a delle donne single e benestanti che un tempo venivano chiamate “ signorine”. Le madri affidavano i loro figli a queste donne anche se i bambini non perdevano mai il rapporto con la famiglia originale, ritrovandosi ad avere più “madri, diciamo così. Il sud è stato sempre martoriato. Si sarebbe dovuto creare il lavoro, non i treni della felicità, a mio parere. Buona domenica.

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    1. Certo, Caterina, questo è innegabile. Anche perché questa iniziativa non fu del governo, ma organizzata per volontà e con le capacità organizzative di un partito. Fu come un atto di volontariato che incontrava altro tipo di volontariato. A quanto pare le famiglie disposte ad accogliere erano tante e molte di queste non si limitarono a questo affido temporaneo. Moltissimi destini furono cambiati da questa "campagna solidale", ed è vero, se accadde fu perché si dovettero forzare quei destini. La povertà dei bambini dei bassi di Napoli non si limitava a difficoltà di pagare i libri e in generale l'istruzione, ma proprio toccava la fame, gli stenti, una dispersione scolastica continua, famiglie incapaci di portare avanti un'idea di futuro per i propri figli a causa di questa fame. Vivere l'esperienza di un anno di affido significava il sollievo per le famiglie d'origine, era di fatto una bocca in meno da sfamare. Il racconto tocca questi aspetti estremi. E non doveva essere necessario, hai perfettamente ragione. Anch'io ho sentito di queste "signorine" che prendevano in affido bambini al sud. Se ne racconta anche nel bellissimo "Accabadora" di Michela Murgia.

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  3. Ho già sentito parlare di questo romanzo e mi piacerebbe leggerlo, la tua recensione mi invoglia ancora di più, certo dovrò preparare il fazzoletto...

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  4. Arrivo tardi perché dal telefono il signor Blogger non mi fa più commentare. Si ostina a chiedere un account Google che poi non riconosce... misteri.
    Comunque: complimenti per la 100esima recensione, sempre molto articolate e curiose. No, non conoscevo i "treni della felicità", ma capisco perché qualcuno ha pensato di dare quest'opportunità ai bambini e perché le famiglie del sud l'hanno colta. Posso anche comprendere perché una volta "assaporato" il nord, non come concetto geografico ma come una vita migliore, senza la fame, la povertà, le scarpe strette degli altri, si decida di non ritornare più al sud, a malincuore. Io mi sono spostata di soli 60 km, nella stessa provincia, ma in due ambienti (e mentalità) decisamente opposti. Quando ritorno, all'uscita dell'autostrada sembra di aver cambiato parallelo, un altro mondo, un viaggio nel tempo. E' strano ritornare nei luoghi dell'infanzia, ma ci vedo anche tutti gli errori, le limitazioni, i pregiudizi. Così che alla fine mi pento solo di non essermene andata prima. Immagino quanto feroce dovesse essere nel dopoguerra, con la fame che morde.

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