La scuola sta per riaprire i battenti, le nostre lezioni cominceranno lunedì 15 ma in tanti istituti anticipano a oggi, per potersi ritagliare qualche recupero più in là e favorire i ponti.
È appena il caso di precisare, non si sa mai, che il nostro lavoro inizia dai primi di settembre, con due collegi docenti, riunioni dipartimentali, consigli di classe e un primo incontro con i genitori degli alunni delle prime. Orario fatto e siamo pronti per accogliere alunne e alunni.
Ecco, l'accoglienza, nota dolente di questi giorni nel dibattito social.
Chiariamo anzitutto cosa significa. Le scuole di ogni ordine e grado si dotano nella prima settimana di scuola di attività finalizzate ad accogliere gli studenti in un clima disteso, inclusivo, giocoso.
Di ogni ordine e grado, quindi anche alle superiori.
Questa pratica non esiste da sempre, è evidente, ma è andata diffondendosi sempre più negli ultimi anni, in particolare dopo la pandemia, quando è stato sempre più chiaro che i giovanissimi sono più fragili di un tempo.
Oggi più che mai ogni "passaggio" è ritenuto traumatico: l'ingresso dalle accoglienti mura di casa alla scuola dell'infanzia (l'asilo), il passaggio dall'infanzia alla primaria (le elementari), quello della primaria alla secondaria di primo grado (le medie), fino al passaggio alla secondaria di secondo grado (le superiori).
Se è del tutto naturale accompagnare per mano il bambino nei suoi primi passi verso la socialità, dagli 8 anni inizia fisiologicamente una nuova fase e oggi i bambini sono sempre più disinvolti a riguardo. Fino all'affacciarsi alla scuola media, a 11 anni, quando vivono il primo dei "passaggi" più concreti.
L'accoglienza nelle prime della media, dove insegno, è particolarmente orientata verso attività di gioco. Per una settimana le aule diventano vere e proprie ludoteche con sovvertimento della posizione dei banchi, cartelloni, pennarelli e pastelli, forbici, cera pongo, e quant'altro. Si produce un po' di tutto, cartelloni e creazioni che poi adornano almeno una parete in classe, a ricordo di questi giorni ibridi e un po' "disordinati".
Lo ammetto, non sono particolarmente versata in questi giochini, punto invece quasi del tutto sul dialogo e la scrittura. Al più nelle mie ore lascio che rifiniscano un lavoro assegnato dal docente dell'ora precedente.
Ai miei alunni assegno una sorta di carta d'identità in cui si raccontano, ma in più fasi. Sulle prime basteranno nomi e descrizioni generiche, poi si va a qualcosa di più consistente: il momento più bello della mia estate, il libro più bello letto negli ultimi anni e quello più brutto e via dicendo. Fino a comporre un tema dal quale emergeranno diversi loro aspetti, il tipo di grafia, il livello di ortografia e sintassi, ecc.
Poi, si sa, sono un'affabulatrice, quindi assumo posture rassicuranti e parlo, innesco un dialogo, li guardo. Parlo fin da subito del lavoro da fare durante l'anno, di cosa mi aspetto da loro, come imposterò le attività e faccio loro capire di essere estemporanea in tanti momenti. Insomma, mi confesso fin da subito: non sono un tipo che programma a lungo termine, tendo anche molto a improvvisare.
Voi chiederete, e come si fa con tutti i programmi da svolgere?
Si fa, si può. I programmi devono filare dritti, con spiegazioni e verifiche, ma concedendoci tutte le deviazioni possibili, perché amo i cambiamenti di rotta.
In sintesi: i primi giorni di scuola devono poter essere soft e mirare ad accogliere le nuove leve, io lo faccio ritagliandomi la mia libertà di insegnamento.
Cito qui un post della professoressa Emanuela Bandini, docente di una scuola superiore, nel quale mette in evidenza una situazione che sta sfuggendo di mano.
In questi giorni fioccano, sui social, post, storie e reel di docenti che propongono attività di conoscenza e socializzazione per i primi giorni di scuola: giochi di ruolo e di società, questionari interattivi, attività ludiche con oggetti vari da portare da casa, mazzi di carte appositamente pensate a questo scopo, spesso con abbondante uso dell'AI (non ho intenzione di celare il disprezzo per quei colleghi che lasciano a ChatGPT l’onore e l’onere di formulare le domande per la prima conoscenza con una nuova classe o per ricominciare il lavoro in una classe già nota).E, all'improvviso, mi sono ricordata del primo giorno di prima superiore, l'ansia di una classe in cui non conoscevo nessuno e la professoressa di Lettere che, nell'atrio, fa l'appello della 1A: Angerame, Bandini, Beretta, Costa... Mi guardo intorno mentre la prof finisce di snocciolare i 31 nomi. Angerame e Beretta sono maschi: col cacchio che nel 1991 una quattordicenne prende l'iniziativa di presentarsi ad un maschio, non se ne parla proprio. Però, vicino a me c'è una tipa con i capelli scuri a caschetto e il frangione. Dev'essere Costa. Non sembra malvagia. Le sussurro, con un po’ di batticuore: "Ciao, io sono Emanuela, e tu?" "Ciao, io sono Chiara". Trentaquattro anni dopo, è ancora una delle mie migliori amiche.E allora mi sono chiesta: ma da quando noi adulti abbiamo cominciato a sostituirci ai ragazzi anche anche quando si tratta di conoscere la nuova compagna di banco o quello che si è seduto là in fondo, ma che sembra un tipo interessante?Da quando abbiamo cominciato a strutturare, noi per loro, i primi, essenziali momenti di conoscenza, a pianificare per loro il momento e la strategia per avvicinare i coetanei - anestetizzandone forse la paura e la vergogna, ma sicuramente anche la curiosità, l'eccitazione della scoperta, la sensazione di aver fatto un passo importante in piena autonomia?Da quando ci sentiamo autorizzati a domandare quale sia il cibo preferito, il sogno nel cassetto, il ricordo più caro, a chiedere di portare a scuola una foto di famiglia o un oggetto a cui sono affezionati, a imporre loro di svelarsi e mettersi in piazza, senza filtri, tutto e subito, fin dalla prima ora del primo giorno, senza alcun rispetto per i tempi di ciascuno?Ma davvero siamo sicuri che tutto questo serva, a noi e a loro? Siamo sicuri che trasformare le prime ore di lezione in sessioni di terapia di gruppo (tra l’altro, senza averne gli strumenti professionali) sia il modo corretto per avviare una relazione che è, per forza di cose, professionale e non amicale, e soprattutto non paritaria? Siamo certi che, in un contesto in cui ragazzi e ragazze fanno sempre più fatica a gestire i rapporti interpersonali (proprio perché sono sempre più mediati, da un adulto o da uno schermo), tutto ciò sia una modalità efficace per creare un clima di classe sereno? Ma davvero pensiamo che affinché Ambrogetto lavori bene in gruppo con Assuntina e Gerolamino sia necessario che conoscano i rispettivi colori preferiti? Che per evitare che Umbertino prenda in giro l’apparecchio di Anselmuccio e il sovrappeso di Camillona basti che si siano rivelati il proprio sogno nel cassetto? Che l’aver raccontato un episodio importante della propria infanzia scongiuri il pericolo che Lauretta sbuffi al solo pensiero di dover correggere gli esercizi in coppia con Carlozzo o con Sandruccia?Forse, basterebbe chiarire, subito e in poche parole, che il compito dei docenti non è quello dei confidenti, degli psicologi, dei preti o degli educatori, e, soprattutto, che la classe non è un gruppo amicale ed elettivo, ma di lavoro, e che quindi non è necessario volersi tutti bene o essere tutti amici, ma è importante rispettarsi e collaborare quando necessario. Se poi, al suono della campanella, ognuno se ne va sereno per la propria strada, va bene lo stesso.Ma, si sa, le card Canva con i cuoricini e i cartelloni con le frasette motivazionali fanno più scena.
Vi dirò, non sapevo che alle superiori si facessero attività di accoglienza molto assomiglianti alle nostre. Escludevo ci fosse questa "ludicizzazione" - oggi si usa il termine gamification - e, concordo, questa "rapina" ai sentimenti, ai modi di essere e fare che invece appartengono alla sfera libera e sacrosanta di un 14enne. A quanto pare poi queste pratiche vengono estese anche agli anni successivi, come se il "trauma" del passaggio si rinnovasse ogni volta.
Passi alle medie, in effetti quel clima ludico appartiene pure alle seconde e alle terze. Ma... anche alle superiori? Che ne è stato di quell'atmosfera di tensione e aspettativa, e diciamola, di paura che però fa bene, giova perché ti pone dinanzi ai tuoi limiti e alle tue potenzialità di superarla, che vivevamo noi?
Ok, noi non facciamo testo. Altri tempi. Sia mai che fai un paragone.
Siamo consapevoli che i ragazzi oggi non siano quelli di appena dieci anni fa, figuriamoci di allora, ma siamo certi che questa infantilizzazione aiuti realmente nell'educazione?
Forse, basterebbe chiarire, subito e in poche parole, che il compito dei docenti non è quello dei confidenti, degli psicologi, dei preti o degli educatori, e, soprattutto, che la classe non è un gruppo amicale ed elettivo, ma di lavoro, e che quindi non è necessario volersi tutti bene o essere tutti amici, ma è importante rispettarsi e collaborare quando necessario. Se poi, al suono della campanella, ognuno se ne va sereno per la propria strada, va bene lo stesso.
Il passaggio più importante è questo. Mi porta verso una riflessione.
A me non viene difficile, anzi è del tutto naturale per mio carattere essere anche una "confidente, psicologa, educatrice", il problema è che andando al di là del mio naso noto che invece fin troppo si sta andando in quella direzione, in particolare in un ambiente come le superiori.
Il ruolo del docente sempre più sta ibridandosi in questa cosa qui, che alla fin fine non sai definire. E se è vero, e sacrosanto, che non dobbiamo essere docenti insensibili e freddi somministratori di conoscenze, non possiamo neppure permettere di diventare l'esatto opposto.
C'è bisogno per questi adolescenti di impattare con le loro crisi, in particolare oggi, dinanzi a genitori iperprotettivi e iperansiosi, non completare questo quadro avvilente e pure molto dannoso per i giovani. Bisogna riappropriarsi del ruolo, non permettere che si formi questa ridefinizione del docente.
E poi il passaggio sul "non si può andare d'accordo tutti".
Non sono nuova a questo pensiero e mi è capitato molte volte, nelle classi, di parlarne.
Può capitare che si generino criticità nelle relazioni fra pari. Uno dei temi più ricorrenti è "gruppo di amiche/compagne di classe che escludono sistematicamente altre".
Accade in particolare tra femmine e si manifesta in attività didattiche ("preferisco lavorare con questa compagna ma non con quella") e nel loro frequentarsi fuori scuola ("alla mia festa invito queste amiche/compagne e non quelle").
È evidente che questi ragazzini non distinguano fra scuola e vita comune. La scuola è uno spazio in cui manifestano gli identici capricci cui sono abituati in famiglia. E questo è già tutto dire.
Scatta l'emergenza: genitori coinvolti, discussioni infinite - e spesso liti - via chat, consiglio di classe che parla di liti e discussioni fra alunni piuttosto che di programmi e didattica, melodrammi in classe che rubano il tempo alle attività, ecc.
I docenti devono intervenire, sì. Ma attenzione, non alimentando la discussione, piuttosto servendosi della vicenda per una lezione sul rispetto, sull'importanza del collaborare in vista di esperienze future, sul "come si fa" quando da adulti ci si trova a dover ingoiare il rospo di collaborare con chi non ci piace. Insomma, essere resilienti, servirsi della crisi per intavolare un lavoro di "orientamento", come oggi chiamano tutte le attività educative fuori dall'apprendimento dei contenuti.
Sembrerà strano, ma... non si può andare d'accordo con tutti, cari ragazzi.
Per il resto, come si fa a imporre a una ragazzina di invitare alla propria festa anche chi non le piace? Non me lo sogno neanche. In particolare perché quanto accade fuori non ci deve né può riguardare.
Raccontare agli alunni che la formula peace and love va bene in tutto è un controsenso. Puoi non piacermi, ma ti rispetto nelle nostre attività in classe. Questo dobbiamo raccontare.
E soprattutto trasmettere in loro l'idea di non poter essere liberi di decidere a scuola. L'insegnante deve essere libero di poter decidere, non loro. Stiamo cadendo in una pessima abitudine ed è un danno colossale. Vedasi quando passi per "cattiva" quando dici loro come vestirsi a scuola o come presentarsi a cena durante il camposcuola (a giugno ho seminato l'angoscia con tanto di lacrime disperate in chi è stata costretta a tornare in camera a cambiare il pantaloncino inguinale, altre docenti hanno fatto passare la cosa ma mi lascia indifferente).
Essere il docente amicone non serve, ma soprattutto non giova. Scherzare, fare battute, ironizzare, tutto va bene, ma non il concedere in virtù di un loro potere decisionale.
I ragazzi oggi si dividono fra il travalicare i limiti e non saper sopportare cadute e crisi. Insomma, siamo giunti al culmine o quasi di questa degenerazione e c'è bisogno di ripensare alla scuola in altri termini, anche quando si tratta di "accoglienza" dei primi giorni.
È difficile mettere insieme un discorso ordinato in queste riflessioni. Sembra di saltare di palo in frasca ma il quadro generale è molto complesso e sempre più questo mestiere si trova a dover fare i conti con problemi che vanno ben oltre la semplice didattica.
Che ne pensate? Vi leggo volentieri nei commenti.
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