martedì 30 agosto 2022

L'estate che sciolse ogni cosa - Tiffany McDaniel

Incipit: Il caldo arrivò insieme al diavolo. Era l'estate del 1984 e il diavolo era stato invitato. Quel caldo torrido, no. C'era da aspettarselo che arrivassero insieme. Dopo tutto, il caldo non è forse il volto del diavolo? E a chi è mai capitato di uscire di casa senza portarselo dietro?
Era un caldo che non scioglieva soltanto le cose tangibili, come i cubetti di ghiaccio, il cioccolato, i gelati. Ma anche l'intangibile. La paura, la fede, l'ira, e ogni collaudato modello di buon senso. Scioglieva l'esistenza della gente, gettandone il futuro in cima al mucchio di terra sulla pala del becchino. 

Eccomi ritornata a bloggare dopo la pausa vacanze estive. 
Io e questo romanzo, un caso editoriale alla sua 12esima ristampa, ci siamo scelti in una delle torride giornate di luglio, quando qualcosa mi ha detto che mi sarebbe piaciuto. 
Intanto, mai più precisamente hanno coinciso narrazione e sensazione epidermica, perché dal titolo a quanto vi è raccontato, tutto dipende, precipita a partire dal caldo inverosimile che si abbatte su una piccola cittadina dell'Ohio. Il caldo, insomma, con cui abbiamo familiarizzato quest'anno. 
L'anno è il 1984 e fin dalle prime pagine, costruite con stile fluido e ammaliante, l'autrice ci trascina in questo gorgo ai confini della realtà, in un intreccio che ricorda il miglior Stephen King ma anche la semplicità di quei romanzi di Fanny Flagg sulla provincia americana che magari nasconde un lato oscuro insospettabile. 
Partendo dalla certezza che un romanzo come questo non incontra solitamente i miei gusti perché preferisco altro tipo di narrazione - più aderente alla realtà, "verista" o verosimile - volentieri posso dichiarare di avere prova che, se si azzeccano i personaggi giusti, collocati nella giusta ambientazione, e se soprattutto c'è chi sa scrivere con l'intenzione di creare due livelli di narrazione, stupire il lettore, ebbene, allora il prodotto vale, e molto. 
Il dolore è la conoscenza più intima. Vive dentro di noi, nelle nostre viscere, toccando tutto ciò che fa di noi ciò che siamo. Reclama le nostre ossa, impera sui nostri muscoli, s'impenna davanti alla nostra forza, poi scompare. L'arte del dolore è nel suo tocco. Come pure il suo orrore. 
McDaniel - che ha origini cherokee - ci porta dentro la coscienza della voce narrante, un 84enne fallito e solo, del quale percorriamo passo a passo il periodo che costituisce il baratro, la caduta, appunto l'estate del 1984 (la coincidenza non è casuale). L'autrice in un'intervista ha fatto riferimento anche a 1984 di Orwell come punto di partenza del romanzo, poiché vi si racconta del confronto fra il singolo e il "gregge".
Gli interventi di narrazione del vecchio assomigliano a dei flash-forward, non si ritagliano una posizione di spicco nell'intreccio, sono il racconto di tutta una serie di derive esistenziali inevitabili. 
Il lettore sa dunque già che nel dipanarsi della matassa qualcosa di terribile sta per accadere, e nel breve lasso di tempo di un'estate, ma non ci sono tinte forti che lo accompagnano verso l'epilogo, non può sospettare il tipo di evento. Mi ha stupito questa capacità della scrittrice di usare livelli tonali lievi, quasi da fiaba, preferendo scene e scenari poetici, ricalcando il grottesco, l'inconsueto, depistando. 
E di questa "fiaba" inedita, di questo racconto dolce e terribile, ho amato anzitutto il personaggio-cardine, il perno attorno al quale la vicenda prende avvio e si avvolge in una forza centrifuga che travolge alcuni altri personaggi-corollario dell'azione. 
Mi parve di percepire allora, nel mondo, una serie di piccoli crolli. Petali di lillà che cadevano a terra. Una falena che si abbatteva al suolo. Granelli di zucchero che scivolavano giù da un bancone. Una palla da baseball che perdeva slancio. Piccole cadute che mi portavano giù in quel baratro in cui non esistono ali e da cui non ci si può più risollevare. 
Il piccolo "diavolo" e la cittadina di freaks. 
Immaginate che un avvocato penalista, un uomo buono e bizzarro, pubblichi sul giornale un invito al diavolo in persona perché si palesi e si possa discutere con lui. Lo fa perché in tanti casi trattati, questo avvocato, che ha nome Autopsy (curioso anche questo), si chiede non cosa sia il male, ma come ci si possa cadere dentro, come si possa esserne dei "portatori sani". Autopsy ha commesso un grave errore giudiziario e non vuole cadere nella stessa trappola. 
Se l'invito viene inviato giusto perché la sua coscienza prenda atto, nessuno può immaginare che il diavolo si presenti realmente, e con le fattezze di un ragazzino di colore con gli occhi verdi, sporco e affamato - ma sarà realmente lui? Sal, questo il nome che si dà, manifesta fin da subito un'intelligenza e un acume senza pari, è in grado di esprimere principi sull'esistenza, diventa intimo amico di Fielding, il ragazzino voce narrante. 
La presenza di Sal sovverte progressivamente tutti gli equilibri della cittadina, senza da parte sua alcuna intenzione di nuocere agli altri. Tutta una serie di coincidenze nefaste fanno di Sal il capro espiatorio perfetto, idea alimentata dal diffuso razzismo della cittadina verso un bambino nero sbucato fuori dal nulla. La fiaba diventa "dark" non solo per la serie di eventi fatali, ma per il manifestarsi, lento e sempre più insinuante, dell'odio più profondo, non solo nei riguardi di Sal.

Tiffany McDaniel

Questa cittadina di personaggi grotteschi - il nano Elohim, la dolce e solitaria Dresden senza una gamba, una madre terrorizzata dal mettere piede fuori di casa che riproduce il mondo sulle pareti e negli oggetti di ogni stanza, la zia Fedelia che porta nei capelli traccia di ogni donna con cui suo marito l'ha tradita, e molti altri - diventa la rappresentazione tragica dei grandi nodi dell'esistenza. E lo fa raccontando, con una scrittura che svela con lentezza le cose, gli abusi sui minori, l'omosessualità e omofobia, la violenza domestica e la violenza tour-court, la diversità, il rapporto padre-figlio.
Senza svelarvi troppo, questa è la messa in scena di una tragedia a tinte forti, un romanzo che, insospettabilmente, ci pone dinanzi ai grandi quesiti della vita: il male, il dolore, il rancore.
Ma anche il senso di colpa, il rimpianto, la fede. 
Ecco, in particolare la fede cristiana è uno dei temi portanti del romanzo, con i vari riferimenti alla Bibbia, a Dio - un dio che osserva e non agisce - oltre al fatto che ogni capitolo si apre su una citazione dal Paradiso Perduto di Milton.
McDaniel ci porta dentro una questione dibattuta da secoli, l'immanenza del male, ma ribaltando la cattedrale di credenze, la fissità di principi che, cozzando con la realtà umana, rendono l'uomo "lupo" del suo simile. Il "diverso" ne fa le spese, paga un prezzo altissimo precipitando nel baratro della follia collettiva, nell'ineluttabile epilogo simbolico e stigma di tutti i peccati del mondo. 
Sull'ultima pagina siamo certi di avere assistito a una metafora dell'esistenza umana in ogni sua sfaccettatura, una parabola simbolica, uno spettacolo in cui la speranza non trova posto perché straziata, inafferrabile. 

Tre curiosità
  • per certi aspetti, questa storia mi ha ricordato la tragica vicenda narrata nel film Dogville di Lars Von Trier, di cui ho scritto qui;
  • ho trovato un articolo molto interessante sul parallelismo fra il "male" come viene narrato nel romanzo e il pensiero di S. Agostino e Hanna Harendt, lo trovate qui;
  • infine una citazione tratta da un'intervista alla scrittrice, su come costruisce le sue storie, oggi fra le più tradotte e diffuse in molta parte del mondo: Comincio sempre a scrivere un nuovo romanzo partendo dal titolo e dalla prima riga. Il titolo e la prima riga guidano il resto della storia. Non faccio scalette. La storia evolve con ogni nuova parola e pagina che scrivo. Per me il modo migliore per creare una storia è stare nel ventre della bestia, perché non dirigo i miei personaggi. Li ascolto. Scrivere un libro è come costruire un corpo. Si assemblano le ossa e poi si aggiungono strati di tessuto e muscoli, infine strati di carne. I dettagli, tipo lentiggini, brufoli, impronte digitali, sono il tocco finale del vostro corpo, della vostra storia. 
Vi capita di leggere romanzi di questo particolare genere? Quali altri esempi vi vengono in mente?
Cosa pensate del "male" così come viene pensato nel romanzo? 

11 commenti:

  1. Penso che questo libro potrebbe piacermi, lo metto in lista. Del resto solo il titolo mi porta a pensare alla nostra lunga estate torrida e mi viene spontaneo immedesimarmi. È anche molto interessante come la scrittrice scrive le sue storie partendo dal titolo e dalla prima frase...

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    1. Un libro che esce dai soliti miei canoni di scelta, ma mi sono affidata (senza pentirmene) alla persona che ne consigliava la lettura e ho potuto vivere una bella e diversa esperienza da lettrice. :)

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  2. La tua recensione è, come sempre, molto gustosa. Devo ammettere, tuttavia, che ultimamente rifuggo la metafora. O, meglio, abbraccio storie che sono tutt'uno con il simbolo che vogliono essere, che offrono spunti filosofici, ma sono anche in grado di tessere una loro realtà alternativa. Come raccontavo da me, mi sono data alla rilettura di Sandman, una storia che non vuole essere metafora, costruisce il suo mondo narrativo e all'interno di questo pone delle domande esistenziali e filosofiche. Non so se ho ben reso il senso della differenza, che forse è chiara anche a me stessa solo fino a un certo punto. Tuttavia, dato che sono in cerca di nuove letture e non mi precludo niente, anche questo romanzo va nella lista lunga delle letture possibili.

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    1. Forse però, almeno dalla definizione che dai tu del tipo di lettura che stai preferendo in questo periodo, questo libro è assai simile a quel filone. Certo, Sandman è forse un unicum per tanti motivi, nascendo non solo come graphic novel ma anche attorno al suo creatore, Neil Gaiman. Ho letto su diverse testate in rete che mentre i disegnatori sono stati a corollario di questa potente storia, Gaiman si è ritagliato invece sempre e costantemente un suo ruolo centrale nella narrazione. Faccio ancora fatica a stabilire se mi piacciono le storie in cui è centrale il ruolo dello scrittore, ma sarebbe bello dedicarci un post.
      Vorrei amare Sandman, credimi. Forse dovrei prima buttarmi su un albo.
      Sempre contentissima di esserti di ispirazione, Antonella. :)

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    2. Non credo nel caso specifico si intenda che è centrale l'autore in quanto tale, ma che è un prodotto autoriale. Nelle altre testate gli autori ruotavano, in Sandman no, è stata scritta unicamente da Gaiman che ha supervisionato anche la parte grafica, quindi è risultato un prodotto più affine al fumetto d'autore europeo che a quello super eroistico americano. Infatti a mio avviso i disegni delle prime storie sono ahimé molto invecchiati, la trama no. Quasi quasi più che un albo ti consiglierei l'audiolibro che è fatto molto molto bene (sempre con lo zampino dell'autore, ma tutto a favore della storia, non della propria immagine).

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    3. Mi riferivo a quanto scritto in questo articolo sulla centralità dell'autore. Tu che conosci la saga, puoi confrontare le tue impressioni con quanto riportato qui:https://fumettologica.it/2019/01/sandman-neil-gaiman-dc-comics/

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  3. Mi incuriosisce l'accostamento a 1984, anche perché quest'ultimo non è solo il confronto fra il singolo e il "gregge". Anzi, mi viene da dire che non lo è affatto.

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    1. Sì, certamente il lato straniante e l'aspetto distopico (anche vaghissimo) del romanzo, riportano al romanzo orwelliano, anche se molto alla lontana.

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  4. Alla fine ti è piaciuto, allora! Io, come sai, non l’ho amato, per una serie di ragioni, che adesso nemmeno ricordo più bene. Mi sono segnata però nell’agenda alcuni punti del romanzo che hanno messo a dura prova la mia pazienza di buona lettrice. Ricordo di essermi imbattuta in metafore ai limiti del ridicolo e questo mi ha dato fastidio in un testo tanto acclamato dalla critica. Ho trovato insulsa la storia, con tutti quegli stereotipi su razzismo, omosessualità, pregiudizi... e confusionaria, con quei rimandi al presente, spesso alienanti.
    Ci sta che a qualcuno un grande successo non piaccia. Ecco, stavolta sono dalla parte dei detrattori. Pensa che ho pure fatto fatica ad arrivare alla fine! 😅

    Marina

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    1. Sospetto che non ti sia piaciuto perché tanti, tantissimi sono i riferimenti all'ambito fideistico. È anche un romanzo per molti aspetti iconoclasta, propone una visione non solo laica ma proprio desacralizzante e non ti sei sentita a tuo agio. D'altra parte, è un tipo di narrazione che si allontana anche dalla mia zona di conforto, si presenta a tratti grottesca, esagerata, ridondante. Ma tutto questo è una messa in scena spettacolare, una tragedia immane, la grande sconfitta dell'essere umano contemporaneo, anche con quel finale distopico che mi ricorda Arancia meccanica. Sì, un romanzo come questo lo ami o lo detesti, ti capisco.

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  5. Non ne ho proprio sentito parlare. Forse con quel titolo e quell'incipit, il mio cervello l'ha subito istantaneamente scartato. Non avrei mai potuto leggere di un'estate calda durante la nostra estate calda. Soffro troppo le temperature, talvolta anche in gennaio. Ecco perché sono andata bene a leggere Guerra e pace di Tolstoj, dove si narra freddo, pioggia, neve, ghiaccio. Un modo per ingannare la mente e cercare un refrigerio istantaneo col pensiero.
    Potrei forse leggerlo sotto Natale, ma in effetti non sono portata per le metafore, le allegorie, i riferimenti nascosti. Il dire senza dire, nascondendosi dietro a dei simboli. Posso riconoscere un gran lavoro dietro a tale scrittura, ma con certi argomenti forse sarebbe il caso di essere espliciti perché il messaggio arrivi forte e chiaro a chiunque. Comunque me lo segno da parte. ;)

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