giovedì 22 giugno 2023

Ma chi me lo fa fare? - Andrea Colamedici, Maura Gancitano

Sono grata al mirabile duo Colamedici-Gancitano di Tlon, compagni di vita e filosofi della contemporaneità, che ci donano qua e là dei testi preziosi per riflessioni necessarie. 
Un giorno dedicherò un post a un saggio sulla bellezza scritto da Maura, anche quello davvero importante opportunità. 
Oggi invece mi soffermo su questo, un'analisi dettagliata sul valore del lavoro e sulle sue derive, ormai "tortura di massa". 
Ci verrebbe facile pensare di primo acchito: ma come? non esiste attività più nobile e nobilitante del lavoro. Come si fa a metterlo in dubbio? E invece è bene soffermarsi proprio su quelle derive, su quanto stia succedendo al mondo del precariato, su quanto sfruttamento esista travestito da occasione per i più giovani, sul logoramento che comporta qualsiasi tipo di lavoro
Imparo che nessuno, a ogni livello e latitudine, può dirsi fuori da questo sistema. Il lavoro oggi si è trasformato, non è più un segmento del nostro quotidiano, ma un'appendice di ogni nostro fare, qualcosa che ha finito col fagocitarci. 

Cercherò di attraversare parte del testo mettendo insieme i passaggi illuminanti, gli snodi. 
Anzitutto, riflettere sul mondo del lavoro pone un dubbio di carattere etico che abbiamo il dovere di porci: ci sono enormi disuguaglianze nel mondo del lavoro, perché? La disparità fra chi guadagna pochissimo per tutte le energie profuse e coloro che guadagnano stipendi da capogiro dilaga, è preponderante, caratterizza una grande parte del sistema. E non può lasciarci indifferenti. 
Il lavoro nobilita l'uomo è un vecchio adagio molto diffuso, oggi non sempre rispondente a verità.
Ci sono milioni di lavoratori in tutto il mondo per nulla "nobilitati" dal lavoro, anzi sfruttati, usati come bestie da soma o spremuti senza alcuna considerazione e ripagati con salari da fame. 
Se queste parole vi fanno pensare ai bambini minatori del Madagascar, per fare uno degli innumerevoli esempi possibili, siete fuori strada almeno in parte. Perché i nostri giovani, quelli di questo mondo occidentale e ricco, in altre forme vengono sfruttati allo stesso modo. 
Si pensi all'appello del Ministero dell'Università e della Ricerca, che mesi fa ricercava 15 giovani esperti ad alto profilo per un contratto senza stipendio. Ma è solo la punta dell'iceberg. 

Milioni di lavoratori nel mondo accettano una condizione estrema perché non c'è scelta, non c'è scampo. Meglio soccombere in lavori precari, pericolosi, sottopagati che niente. Garanzia di sopravvivenza, non autodeterminazione, progetto su di sé. 
La definizione "lavoro che non lascia tempo per sé, senza paga dignitosa" potrebbe descrivere il lavoro di moltissimi lavoratori, anche del nostro mondo ricco. 
La fatica del lavoro oggi più che mai si amalgama alla fretta, una vera e propria cultura che negli ultimi quaranta anni è diventata l'imperativo categorico delle società complesse. 
La fretta non è solo muoversi velocemente, ma concentrare, spremere il più possibile, molti risultati nel più breve tempo possibile. E laddove questo è il leit motiv, non c'è tempo per dedicarsi a se stessi né per sviluppare relazioni significative con colleghi e collaboratori. 

Il lavoro deumanizzante. 
La Storia ha registrato uno dei più devastanti eventi del lavoro deumanizzante nel XX secolo: lo sfruttamento degli ebrei nei lager. A partire dalla grottesca scritta che dà il "benvenuto" al lager di Auschwitz "Il lavoro rende liberi" fino a tutti i documenti in cui la barbarie nazista fa riferimento al lavoro come strumento di sfruttamento e distruzione di massa, è evidente come questa attività fosse ritenuta dal nazismo come umiliazione e sofferenza. 
Lo ipotizza Primo Levi, riferendosi al lavoro degli schiavi che "libera i padroni dagli oneri e dalla fatica". Oggi non siamo lontanissimi da questa definizione. Se pensiamo agli emigranti, è evidente che la protervia di gran parte del populismo e del sovranismo possa essere tradotta così: ti offro il lavoro, ma a patto che ti presenti a capo chino e sei disposto a farti umiliare. 
Il migrante diventa bracciante, può e deve esistere, ma non deve essergli offerta possibilità di migliorare troppo la propria condizione, non vogliamo emigranti che arrivino a livelli importanti e facciano una scalata sociale; i nostri valori, la purezza della nostra etnia non devono essere intaccati

Se andiamo indietro nei secoli, sappiamo bene che il lavoro è stato sempre demandato a schiavi, prigionieri, classi di contadini e artigiani. Nessuno lo aveva scelto, tutti si erano trovati in un sistema in cui la nascita decretava il destino. Il calvinismo, ossia l'etica protestante, con la sua idea nobilitante del lavoro in senso fideistico diede poi una forte impronta al Cinquecento.  
In seguito la grande rivoluzione industriale ha creato l'operaio, il sistema moderno lo ha deumanizzato obbligandolo a una macchina, a lunghe ore di monotono lavoro alienante. La filosofia del tempo teorizzò la norma della superiorità morale e politica dei lavoratori. 
Il concetto si sviluppò nel neoliberismo, che ha messo radici nell'epoca moderna e contemporanea. 
Oggi non si può parlare semplicemente di produzione, ma di consumismo: una persona ha valore sociale se può acquistare i beni prodotti. 
In virtù di questa evoluzione - o involuzione? - oggi, in particolare in città produttrici di lavoro, si genera un continuo "lavorismo", un sistema-piovra di cui è impossibile individuare i confini. La giornata è scandita da ore di lavoro, un'attività ossessiva che non ha fine perché costantemente orientata verso il miglioramento della propria posizione. 


Perfino nelle pause dal lavoro, nei momenti in famiglia, si pensa incessantemente alla propria attività, il tempo è una variabile troppo preziosa e la sensazione è di infilare il proprio tempo libero in piccoli infinitesimi segmenti fra porzioni molto ampie di lavoro lavoro lavoro. 
In molti luoghi di lavori scatta una competizione alienante: si fa a gara a chi lavora di più, produce di più, ricevendo la pacca del capoufficio. 
In luoghi di lavoro "blasonati", magari di grandi brand, questa competizione è altissima. 
I lavoratori di questi ambiti si sentono gratificati dallo zainetto griffato dell'azienda, dal bar dell'azienda che offre apertivi ogni giorno, da feste esclusive dove sono ammessi i migliori. In cambio, molti non sanno di stare letteralmente distruggendosi per il vertice. Sono schiavi felici, in realtà né più né meno criceti nella ruota, sfruttati e gratificati assai meno rispetto al sacrificio di sé. 

Si tratta della "sindrome di Stoccolma aziendale"
Il sistema genera nei propri impiegati l'idea, anzi la certezza di stare lavorando per una grande famiglia, di prendersi cura di loro, offre qualche comodità, ambienti high-tech, buoni-premio e perfino la possibilità di andare al lavoro quando si vuole. La realtà è che ciascuno di quegli impiegati non sa di stare sacrificando molto più di sé di quanto creda. Perché poi si lavora dall'alba, proprio perché manca quell'ora definita e la dipendenza psicologica dal lavoro diventa ossessione. 
Molti lavoratori riducono le proprie ferie al minimo, attaccano prima e finiscono più tardi, si mostrano stanchi e devoti e per questo degni di maggiore stima rispetto a chi segue un percorso "normale". 
Il legame con la propria "azienda" è in tal caso di totale sottomissione, lealtà, devozione. La performance è l'obiettivo quotidiano, di ogni momento della giornata. Non trovate sia spaventoso? 
Il workism è quello strano spettacolo in cui assistiamo a persone apparentemente felici che dedicano molte più ore al lavoro rispetto a quelle per le quali erano state assunte. Il lavoro si trasforma in questi casi in una fede religiosa, perché promette identità, trascendenza e comunità. Identità perché produce una mission e ti dice chi sei, cosa vuoi, quali obiettivi devi avere nella vita; trascendenza perché ti connette con una vision capace di dare senso; comunità, perché genera un parco fedeli con cui condividere ed espandere il proprio trust e rinsaldare la relazione tossica. 
Non possiamo non pensare ai giovani fagocitati in questo sistema. Magari giovani con un percorso di istruzione ad alto livello, educati all'idea di una carriera futura, quanti hanno fatto questa fine? 
Anche qui, non commettiamo l'errore di pensare solo ai grandi brand, perché questo sistema è ovunque. 
Il lavoro quindi non è più il mezzo mediante il quale darsi una vita dignitosa, ma il fine attraverso il quale vivere, quella "cosa" che finisce col caratterizzare l'identità, lo scopo della vita. 
Sembrerebbe una nuova religione, quella fede assoluta che qualche secolo fa corrispondeva alla fede tradizionale. 
Citando qualche dato, in media in Italia si lavora 37 ore settimanali, ma ci sono lavoratori che raggiungono le 60 ore a settimana, per non dire del lavoro nero. 
Il lavoro part-time e il lavoro flessibile sono fortemente scoraggiati, penalizzanti. Anche se non c'è dubbio che andrebbero a favore della famiglia, delle nascite, della cura di sé. 

Il valore della noia e del sonno.
In un sistema lavorativo in cui la performance è preferibile, il tempo rincorso, il fare bella mostra di sé facendo più degli altri lo scopo, si sta dimenticando un aspetto fondamentale: il tempo vuoto. 
Il tempo vuoto non è vuoto di senso. È un tempo rigenerante, indispensabile. Senza questo vuoto non c'è possibilità di creare. Spremersi come un limone all'inseguimento di risultati performativi non genera automaticamente valore creativo, anzi l'opposto. Cito un altro passaggio.
La creatività e l'estro hanno bisogno di spazi vuoti per manifestarsi. La noia è l'uccello incantato che cova l'uovo dell'esperienza. Non serve a nulla piantare ogni giorno nuovi semi se non si dà loro il modo e il tempo di fiorire. La noia è un ingrediente essenziale del processo creativo, è quel momento in cui il tempo può dilatarsi e si può fare esperienza del vuoto. Serve a fare spazio all'attenzione contemplativa, che è molto diversa dallo stato di iperattenzione in cui viviamo oggi, che ci illude di essere attivi ma che ci svuota e ci tiene in una condizione di stanchezza cronica.
Anche il sonno ha un valore, a partire dall'essere riposo dalle fatiche quotidiane ma anche come "atto di resistenza al profitto". Non possiamo abbandonarci al sonno con senso di colpa né metterci in competizione con chi preferisce il non-riposo, la performance estrema che sfida ogni stanchezza.
Il sonno è un atto umano, la prova della nostra incompatibilità con il mondo moderno. Siamo come usciti fuori dai ranghi, abbiamo esagerato, ci siamo persi, abbiamo perso il senso del nostro limite.
Invece, procrastinare preferendo il riposo è un atto doveroso verso noi stessi, non per niente l'Oms ha messo in guardia contro i rischi e gli effetti del burnout, lo stress cronico tipico delle ultime due generazioni. 
Quello che ho cercato di riassumere è solo una minima parte di questo prezioso testo, che vi consiglio. 


Gli effetti del burnout

Come vivo io il mio lavoro. 
L'insegnamento non è solo un lavoro ma una condizione esistenziale. Non si smette di essere insegnanti quando, allo squillo della campanella, si raccolgono le proprie cose e si torna a casa. 
Oltre al tanto "lavoro sommerso" - ossia quel lavoro che svolgiamo in pomeriggi in cui non possiamo scegliere di riposare perché ci sono scadenze ravvicinate, riunioni collegiali, consigli di classe, dipartimenti, ricevimenti dei genitori, correzione compiti e preparazione di unità didattiche - essere insegnanti significa essere reperibili, in particolare dagli ultimi tre anni.
Nei mesi del lockdown, con la didattica a distanza, si è sviluppata una nuova forma di lavoro scolastico che non è mai terminata, neppure dopo la pandemia. Le piattaforme digitali hanno continuato a esistere, le classi virtuali, il lavoro didattico gestito da casa, sono ormai realtà consolidate. 
Se poi si ha un particolare ruolo, dalle funzioni strumentali alla referenza di progetto e altro, il lavoro didattico è solo una parte, perché si partecipa attivamente alla gestione dell'istituzione - contatti con gli enti locali, gestione di Pon (progetti finanziati dall'UE), gestione della progettazione per gli alunni fragili, ecc. Ci sono molteplici funzioni che solo chi lavora all'interno di questa complessa istituzione conosce. È insomma appena il caso di dire che essere insegnanti non significa solo svolgere 18 ore frontali in classe e "godere di due mesi di ferie" (la leggenda dice perfino tre mesi), ma molto molto altro. Per me insegnare è essenzialmente prendermi cura dei miei alunni. 

Non ho più le stesse energie di una decina di anni fa. Ho ridotto il lavoro didattico da casa al minimo, allo stretto indispensabile. Se rispondessi a email di genitori, se mi ostinassi a utilizzare in modo massiccio le piattaforme digitali, i miei livelli di stress sarebbero alle stelle. 
Mi tengo il lavoro sommerso inevitabile, da quello non si scappa. 
Per ciò che dipende dalla mia volontà, centellino le mie energie mentali e fisiche concentrandomi essenzialmente nel lavoro in classe. Le mie ore di lezione sono un lavoro certosino di approfondimento dei contenuti, mi servo della mia assertività, congetturo strategie di attrazione, rivitalizzo l'ascolto, arricchisco i percorsi disciplinari con tutti i possibili agganci con la contemporaneità. 
Si tratta di abilità imparate sul campo e realmente acquisite con molti anni di esperienza. 
Verifica e valutazione si amalgamano a questi percorsi con molta fluidità, i ragazzi non percepiscono questi momenti come compartimenti stagni. 

Essendo quest'anno referente di progetto e curando il giornale di istituto, ho aggiunto due ore frontali ogni mese e una quantità non identificata di ore di lavoro sommerso per l'impaginazione del giornale. Questa cosa mi ha stancato moltissimo - e non sarà retribuita che in minima parte - ma ne è valsa la pena, perché la ricaduta sui ragazzi è stata significativa. 
Gli effetti della stanchezza si sono fatti sentire sul mio sistema immunitario, perché mi sono ammalata a più riprese e ho chiuso a maggio con giorni di vertigini che mi hanno immobilizzato. 
Il prossimo anno dovrò centellinare anche questa attività, i segnali sono stati molto chiari. 
[A proposito, se volete dare un'occhiata, ecco il primo, il secondo, il terzo e il quarto numero]. 

Ho una posizione molto netta riguardo al mio tempo, a quello che abbiamo definito "vuoto". 
Il mio tempo vuoto, se vuoto di lavoro, è riempito di riposo (mi concedo sempre una mezz'ora di sonno ogni pomeriggio), di diverse ore di lettura e di scrittura in questo mio blog (ma non più di una volta a settimana), di ore dedicate al teatro (scrittura copioni, laboratorio e Compagnia), di tempo dedicato alle persone care. 
Non permetto al mio lavoro di rubarmi il mio tempo. Escogito strategie per centellinare, mi concedo anche la procrastinazione e non me ne vergogno minimamente. 
Non avendo le stesse energie di un tempo e soprattutto occupandomi anche di altri interessi (sfido chiunque a negare che ricadano sulla mia stessa professione), ammetto di non accettare mai di assumermi ulteriori impegni scolastici se non proprio costretta. Ci sono molti lavoratori della scuola che non coltivano altri interessi se non la propria professione, pertanto hanno molto più tempo di me per occuparsi di tutto l'immaginabile. Non mi sento in difetto rispetto a questi, sono scelte di vita e molto dipende da come siamo fatti, dalle nostre passioni, dal nostro desiderio di spaziare. 
Potrei essere un'insegnante migliore se mi occupassi esclusivamente della mia professione? Lo escludo. 
Non nutro sensi di colpa, non permetto al sistema di divorare la mia creatività e il mio tempo generativo. 

Mi fermo qui, ringraziandovi per aver letto questo lungo post.
Raccontatemi di voi, come vivete o avete vissuto il vostro lavoro? Cosa pensate di queste problematiche legate al sistema-lavoro? 

21 commenti:

  1. Leggo di "Sindrome di Stoccolma aziendale" per la prima volta, convinta che si trattasse solo di un problema riscontrato da me. E invece esiste, eccome. Mi sento meno sola. Ho vissuto un'esperienza analoga rispetto a quanto raccontato nella prima parte di questo tuo post: 12 ore di lavoro al giorno, con l'obbligo di portarsi pure il lavoro a casa e con richiami disciplinari costanti nel caso in cui questo non venisse fatto. A volte si lavorava anche il sabato, a mezza giornata (che a volte è diventata una 8 ore no stop senza pausa pranzo). Quando, dopo qualche mese, sono riuscita a trovare un altro lavoro e ho dovuto comunicare le dimissioni, mi sono sentita in colpa. Non trovavo le parole per dirlo. Sì, mi sono sentita colpevole, sbagliata ed ingrata. Ma mi stavo ammalando e non potevo andare avanti in quella maniera!
    Ora ho un lavoro normale, 8 ore al giorno, un titolare comprensivo, e nel mio tempo libero decido io che cosa fare... Se c'è un'urgenza decido io se dare o meno la mia disponibilità, senza incorrere in richiami disciplinari e minacce di licenziamento.
    So che purtroppo molte realtà lavorative sono identiche - se non peggiori - a quella con cui ho avuto a che fare fino a qualche mese fa, ma fino a quando ci saranno persone disposte a dedicare tutto (salute compresa) all'azienda, beh... Avranno sempre ragione loro.

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    1. Il nocciolo del problema è forse proprio l'accettazione del sistema, il cascare dentro certe dinamiche sentendosi apparentemente gratificati e appagati ma in realtà facendo la fine della celebre rana bollita di Chomsky. Conosco alcuni casi come quello che vivevi prima: mentre tu avvertivi il peso di una vita troppo votata al lavoro, ci sono soggetti invece totalmente felici di stare facendo quello che fanno, ignari dell'essere parti di un ingranaggio che non valorizza l'individuo ma il lavoratore come parte della catena di montaggio. Sono contenta che tu abbia trovato in seguito un lavoro del tutto diverso e che ti consente del tempo per te.

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  2. Quanto è desolatamente vero il ritratto che fa questo libro del lavoro! Ormai da anni si assiste allo sfruttamento indiscriminato del lavoratore, io stessa l'ho sperimentato sulla mia pelle: da giovane, quando iniziai a lavorare, ebbi due esaurimenti nervosi. Si lavorava molto più delle normali otto ore al giorno e oltretutto si era anche disprezzati dai propri datori di lavoro - un'azienda di consulenza di management aziendale. Gli straordinari erano normali, non l'eccezione e, malgrado vivessi ancora con i miei, e quindi non avessi una famiglia cui badare, ho avuto il classico caso di "burnout". La cosa più desolante è che non si imparava niente, non ci si evolveva. Detestavo quello che facevo, e l'ambiente in cui mi trovavo. Ho sperimentato vari ambienti lavorativi, di genere differente, ma posso dirti che per me arrivare in Longman è stato un salto di qualità in tutti i sensi, sia dal punto di vista umano che professionale.
    Nella mia professione attuale, comunque, posso confermare che tutto è diventato estremamente veloce. Per esempio una volta un corso d'inglese richiedeva una progettazione di almeno due anni, ora si fa tutto in sei mesi ed è tutto un rincorrere ritardi e scadenze. Non c'è mai tregua, nemmeno in primavera dove un tempo l'editoriale si riposava ed entrava in gioco il commerciale con la propaganda nelle scuole. Oltretutto con l'introduzione del digitale il lavoro è aumentato enormemente.

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    1. Interessante la tua risposta, Cristina, perché ci permette di dare un'occhiata al mondo dell'editoria. La Longman è specializzata in traduzioni e corsi di Inglese, e attualmente come tutte le case editrici tende a ottimizzare il lavoro aumentandone il carico. Se comunque senti di stare bene, vuol dire che il sistema riassorbe il carico senza portare grande disagio agli impiegati nell'azienda e questo è molto importante.
      A proposito di propaganda nelle scuole, ti lascio immaginare la valanga di libri che arrivano a maggio. Ultimamente abbiamo cambiato noi di Lettere il libro di Storia e Geografia. Avevamo richiesto solo una copia docente per visionare e confrontare con altre proposte, invece sono arrivate da tutti gli editori sette copie per ciascuna di noi di ogni proposta editoriale. Siamo state sommerse. È un enorme spreco di carta, oltretutto! :(

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  3. Purtroppo ho sperimentato il lavoro in un ambiente tossico, con datori di lavoro schiavisti, e un lunghissimo, interminabile calvario di incertezza con tutta la trafila (co.co.co., apprendista, contratto a tempo) prima di arrivare a un contratto a tempo indeterminato che tuttavia non garantiva nulla poiché c'era la costante minaccia del licenziamento. Devo aggiungere che me ne sarei andato subito, e molto volentieri, ma non potevo poiché non avevo alternative oltre alla disoccupazione. L'esperienza mi ha fatto capire che uno dei problemi di base è proprio quando il lavoro scarseggia, è una situazione che permette a chi offre lavoro di imporre le proprie condizioni.
    Purtroppo stiamo virando verso un sistema all'americana in cui anche a fronte di una richiesta di lavoratori superiore al numero dei candidati, il datore di lavoro può proporre condizioni-capestro in modo del tutto legale, in tal modo chi se lo può permettere rifiuta, ma chi ha veramente necessità è costretto a accettare.

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    1. È un ricatto bello e buono ed è molto diffuso. Anche la tua testimonianza conferma che possono esserci periodi di estremo disagio e la consapevolezza di essere sfruttati. Negli Usa, dove raccontano una "favola" rispetto a ciò che poi è la realtà, esistono condizioni capestro che come dici stiamo assorbendo. Nel film Nomadland, che consiglio a tutti di vedere, c'è quell'America sommersa, fatta di lavoratori nomadi che accettano condizioni contrattuali a termine e sottopagati e si spostano di continuo, su roulotte, per cercare ogni volta un lavoro diverso in seguito al naturale licenziamento per scadenza contratto. Altro che terra dell'autodeterminazione.

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  4. La morte del sindacato ha riportato l'uso dello schiavismo nelle aziende. Lavori infernali, paghe bassissime e per le donne lavori particolari.
    Io, direttore ammnistrativo in un Ente regionale ho guadagnato una barca di soldi. Bisogna organizzare gli uffici e scegliere gente onesta. Alla fine, mettevo solo le firme.
    Il leader non è solo colui che impartisce comandi ad altri che eseguono, ma è colui che soprattutto, attraverso un processo di delega, riesce a responsabilizzare i propri collaboratori.

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    1. I sindacati non sempre funzionano a dovere, in effetti. Potrebbero fare di più? Forse ci vorrebbero maggiori tutele garantite dalla legge. Quando ero una precaria della scuola, c'erano dirigenti che ci trattavano da ultima ruota del carro sottoponendoci a orari impossibili e facendoci fare salti fra scuole diverse con cattedre spezzate, ecc. A me dopo un anno di lavoro una preside non voleva aggiornarmi il contratto per fare gli esami a una terza, cosa che sarebbe stato traumatica per la classe. Mi rivolsi al sindacato e un tizio molto in gamba mi suggerì di scrivere facendo mettere agli atti la mia richiesta di "utilizzazione". La preside fu costretta a tenermi per il mese di giugno (ma fui pagata solo per le giornate lavorate per gli esami, non sia mai il contrario) e si concesse pure la battuta "lei si è fatta manovrare da qualcuno molto furbo". Questa la situazione pure della scuola italiana.

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  5. Io vivo un grandissimo disagio sul lavoro, negli ultimi due anni le scadenze che ricadono sotto la mia responsabilità sono un numero talmente elevato che per farvi fronte mi tocca occuparmene di domenica, togliendo tempo al mio riposo. Almeno una volta scrivevo, ma era una mia scelta e una mia passione
    Unica soddisfazione non acquisto più nulla!
    Non esco la sera perché non ho la forza di uscire dopo 12 ore di lavoro, non compro più certi vestiti che tanto non ho tempo, ne energie per metterli.
    Unico aspetto positivo non sono precaria e ho uno stipendio dignitoso, ma mi spremono come un limone, ogni tanto vorrei ribellarmi e dare di matto, andare dai miei capi (i vertici della governance) e picchiarli. Per ora mi sono limitata a scrivere un giallo con qualche personaggio analogo che faceva una brutta fine...
    Comunque questa modalità di lavorare non va per niente bene, prima o poi implodiamo come il sottomarino Titan

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    1. A fronte di un buono stipendio, è davvero inaccettabile che si venga spremuti come un limone, come tu scrivi. Hai scritto spesso di vivere questo disagio e mi dispiace, anche perché ciò che si perde, quel "vuoto" rigenerante che permette anche la creatività, ne viene fortemente mortificato. Peccato anche solo per l'aspetto creativo.

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  6. Ti faccio i complimenti per quest'articolo dove condivido ogni parola. Il lavoro ormai è solo sfruttamento, soprattutto da noi al sud. Qui ci sono stipendi da fame ( nemmeno mille euro al mese) per 12-14 ore di lavoro...e diciamo che di queste 12 ore te ne pagano solo quattro o cinque, il resto si lavora in nero. Io credo che il precariato abbia dato una solenne bastonatura al mondo del lavoro, togliendo alla persona la possibilità di avere un contratto stabile e di conseguenza una vita stabile. Oggi non ti puoi affittare nemmeno una casa con questi contratti, si vede necessaria la firma di garanzia dei genitori. Per non parlare dell'abolizione dell'articolo 18, il più grande sbaglio di questo paese, che hai visto il consenso dei sindacati. Non esiste più una vita propria, gente sfruttata che non può concedersi vacanze, né può comprare auto o immobili e addirittura non ha nemmeno un giorno di riposo. Per quanto tempo si continuerà così? Il sistema capitalistico ci sta facendo affondare.

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    1. Forse l'art. 18 andava rivisto più che abolito. In effetti ogni estremismo poi non comporta una risoluzione dei problemi. Noto una certa indifferenza dei governi verso i lavoratori, soprattutto delle sinistre che si sono avvicendate al potere nell'ultimo venticinquennio. Una disattenzione evidente sia nei riguardi della piaga del precariato sia verso i giovani. In particolare le nuove generazioni sono falcidiate da un sistema che non incoraggia a comportamenti virtuosi, vedasi l'evasione fiscale, che non sarà mai risolta fino a quando il pagamento di tasse sul proprio lavoro equivarrà a un salasso insostenibile.

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  7. La mia esperienza di lavoro risale agli anni successivi alla laurea, in primis quelli tremendi di praticantato, due anni di gavetta insopportabile fatta di sfruttamento e poca gratificazione (che più di risolversi in ore di attesa nelle aule di tribunale e fotocopie non faceva), anche i miei successivi due anni in una piccola società consortile non sono stati migliori, però almeno in questo caso il lavoro non era troppo impegnativo, sottopagato sì e anche noioso, ma non per così dire oberante. Me la passo meglio da casalinga: il termine è terribile, lo detesto, ma il fatto di non lavorare(per qualcuno), ecco diciamo il fatto di essere una"libera professionista" domestica mi ha sempre consentito margini di libertà per organizzare ogni attività e sono contenta di poter gestire spazio, tempi e pure la noia giornalieri. Si potrebbero approfondire diversi punti oggetto del post, ma sto scrivendo col cellulare e accidenti mi sta venendo difficilissimo😅
    Marina

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    1. Non avevo dubbi che l'impatto d'esperienza dei laureati in Giurisprudenza con gli studi di avvocati fosse molto al di sotto delle aspettative dei giovani, e tu lo hai vissuto in prima persona. Dopo anni trascorsi a studiare la gavetta è durissima e vedersi impiegato a fare fotocopie lo immagino come un'attività assolutamente frustrante.
      Nella tua vita decidi tu, hai i tuoi spazi, le tue soddisfazioni, la certezza di fare esattamente quello che vorresti, in primis aver allevato ed educato al meglio i tuoi due figli. Massima stima per te. :)

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  8. Cara Luz mi ero persa questo bell'articolo di approfondimento sul tema lavoro che come immagini mi interessa molto. Condivido gran parte del tuo ragionamento a cui mi permetto di aggiungere che la condizione attuale è largamente dovuta a un fenomeno tutto italiano di mancata redistribuzione della ricchezza prodotta (l'incremento, seppur modesto, del PIL è lì a dimostrarlo) e dei margini delle imprese alle lavoratrici e ai lavoratori che non ne beneficiano. I profitti cioè continuano a salire mentre i salari no. E non lasciamoci convincere dall'equivalenza "salari bloccati - inflazione bloccata" perché questo era vero decenni fa ma ora che i profitti e i margini di impresa triplicati soprattutto in alcuni settori a causa del Covid non sono stati reinvestiti nel lavoro, anzi, il lavoro ha fatto parte di questo sfruttamento, l'inflazione è causata dall'aumento dei prezzi ingiustificato che serve proprio per aumentare quei margini, tanto nessuno interviene sui prezzi, ce ne siamo accorti, no? Bollette mensilizzate per nascondere gli aumenti ecc. ecc. I sindacati non sono buoni? Ma certo, quando mai lo siamo stati, nemmeno quando in condizioni incredibili rinnovavamo i contratti siamo considerati da una certa parte della popolazione lavoratrice che guarda caso nel sindacato non si riconosce. Un cane che si morde la coda? Peggio: è passata l'idea di certa politica che la mediazione sociale non sia necessaria anzi addirittura inutile. Così chi lavora quelle 37 h alla settimana di cui parlavi (ma sempre più si tratta di 12 o al massimo 20) deve fare straordinari e magari grigio o nero per poter arrivare alla fine del mese. Eh sì, la bacchetta magica non esiste. Tocca metterci del nostro. Oppure continuare a sprofondare.
    Si riparte solo con una rinnovata coscienza e con quei rapporti di forza che Marx teorizzava e che ahimé sono passati di moda. Oggi impera l'ognun per sé. I risultati sono sotto gli occhi di tutti... Un abbraccio

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    1. Chi meglio di te, che sei parte attiva in un importante sindacato di lavoratori, può fotografare la situazione? Mi stupisce per esempio la disattenzione nei confronti dei giovani, la mortificazione dei loro progetti. Un giovane imprenditore dovrebbe essere tutelato, coadiuvato, supportato nel suo progetto, invece... È come se non si volesse per programma prestare attenzione alle nuove generazioni e mi chiedo perché, da dove derivi questa conclamata ottusità.

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  9. Potrei scriverci per mesi su questo argomento, tanta la rabbia e le cose storte osservate in più di vent'anni di lavoro duro. Sono nata nel Grande Nord-Est Lavoratore, quello che si considera la carretta d'Italia, che trascina l'Economia del Paese intero. Una grande fregatura, altroché.
    Il mio primo impiego, d'estate tra una classe e l'altra delle superiori, era sfruttamento volontario nelle colonie estive a gestione religiosa: primo anno con contributi versati, dal secondo tutto fumo grigio-nero. Il secondo impiego era per raccogliere soldi e poter tornare a studiare, ma ero in un ambiente tossico dove "la figlia di papà" si permetteva di tacciare le altre impiegate con un "ma non c'è un libretto di istruzioni per le mongolette come te?" di fronte alla clientela, imbarazzata da tanta maleducazione (e quella "mongoletta" - non ero io - si era diplomata con un punteggio superiore al suo, per altro). Sono tornata a studiare con una carica enorme. A fine laurea sono cominciati gli stage, dove con la scusa di imparare un lavoro le aziende non pagano e non assumono mai, ed i mitici co.co.co., quello scempio di contratto (poi trasformato in co.co.pro. ma sempre scempio resta nell'essenza) dove le aziende ti pagavano poco e ti schiavizzavano molto. Qui nel Nord-Est c'erano imprese con grossi volumi di fatturato, 1 solo dipendente e gli altri tutti co.co.co. senza diritto alcuno. Appena ho potuto, me ne sono scappata a lavorare per un'azienda milanese, assunta subito a tempo indeterminato e con prospettive di carriera. E' durata 17 anni, i suoi pro e i suoi contro, complicato come un matrimonio direi. Ho imparato tanto, tantissimo. Mi hanno sfruttato tanto, tantissimo. Ho lavorato di domenica e accumulato parecchi straordinari non pagati, le trasferte non avevano la diaria, la reperibilità non era coperta, alcuni progetti erano davvero stressanti da incidere sulla salute, ma ho soggiornato in alberghi di lusso, avevo sempre un portatile nuovo e altri benefit, un'assicurazione medica, cene aziendali di livello, un brand conosciuto e stimato, quell'idea di famiglia. Poi ho avuto problemi seri di salute e lì ho scoperto quanto è profonda la tanta del Bianconiglio (cit. Matrix). Ho cominciato a dare maggior valore al mio tempo libero, e con me anche quelli del mio team. Ma il mio mentore, quasi un fratello oramai, ha dovuto mollare per seri problemi di salute. E alla fine, non avendo più quella "famiglia", me ne sono andata di casa anch'io. Sentendomi comunque in colpa, e dopo aver valutato persino un trasferimento a Milano. Devo dire che la scrittura, a quel punto, ha anche avuto un grosso ruolo nel rivalutare il mio tempo libero.

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    1. Accidenti, Barbara, hai toccato si può dire esperienze ai limiti e poi altre appaganti. Ti hanno offerto uno sguardo anche smaliziato su questo mondo aziendale che conosco poco o niente. Da impiegata statale, l'esperienza è nettamente diversa. Nel corso del tempo ho capito quanto siano mondi davvero opposti quello privato e quello pubblico. Da impiegata nel pubblico so di avere molte garanzie, moltissime se si considerano gli anni di "anzianità" nel servizio. Garanzie di base proteggono le donne madri, la malattia, l'assistenza a parenti affetti da malattie. C'è appunto una base su cui puoi costruire il tuo mestiere senza troppi affanni. Poi ci sono svantaggi come in tutti gli ambiti, ma nulla di paragonabile a ciò che sento nel lavoro privato, se non si considerano gli insegnanti precari, privi di tutele e soprattutto di continuità nel servizio, e costretti altresì a corsi molto costosi per raggiungere crediti e poter accedere alla cattedra. Però se paragono questo alle migliaia di precari del lavoro privato... parrebbe nulla.

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  10. Cambiando lavoro, avvicinandomi a casa, ho fatto una triste scoperta: nei nuovi contratti di lavoro non ci sono permessi per i primi due anni (ci ho scritto un post dettagliato all'epoca sul mio webnauta: Ci hanno rubato il tempo libero). Uno scempio concordato col silenzio-assenso dei sindacati stessi, e del resto in quei 17 anni in cui ho girato parecchie grandi aziende e poli finanziari, posso affermare che i sindacalisti erano più concentrati nell'avanzamento di carriera promesso che nel proprio ruolo. Per due anni non sono riuscita a curarmi bene, né a vivere me stessa, famiglia e amici, la scrittura in cantina. Ho cambiato lavoro poco prima della pandemia e mi tocca dire che ne ho beneficiato perché con lo smartworking almeno ho recuperato un po' di tempo per me, almeno un'ora di traffico per spostarsi in ufficio prima. Per altro in quel periodo, tutti a casa, connessi anche fino a tardi, l'azienda ha fatturato molto di più, così che lo smart working è diventato una possibilità utilizzabile. Avevo chiesto un contratto part-time, ma non c'era spazio, anzi mi volevano far viaggiare di nuovo tra clienti e progetti, portandomi via altro tempo libero. Ho studiato come una pazza per un concorso pubblico, davvero uuno sforzo assurdo dopo un lavoro già pesante, e l'ho passato. In pochi mesi, ho fatto il salto dal settore privato al pubblico, da 40 ore (sulla carta) a 36 ore. Mi è costato caro: 38% di stipendio in meno, zero benefit, nessuna assistenza medica, carriera rallentata. La pandemia mi ha fatto vedere chiaramente la Grande Illusione del Lavoro, quella in cui sono caduti i nostri genitori, convinti che il sacrificio paghi sempre. Bufala. Ricordo un'intervista a un'infermiera che assisteva i malati di Covid, quelli della prima ondata, morti intubati senza cure certe e senza salutare i propri cari: diceva che tutti loro, tutti nessuno escluso, rimpiangevano di non aver vissuto di più, rammaricati di aver solo lavorato e non ne era valsa la pena. Rientro così non solo nella Great Resignation, ma anche nel movimento del Quiet Quitting (e per la verità, avevo già cominciato prima che fosse definito un movimento): non è che al lavoro faccio il minimo indispensabile, non sono una scansafatiche (ahimè, mi è rimasto l'imprinting delle mie esperienze precedenti), ma il lavoro resta blindato nell'orario di lavoro e basta. Ed è qui che si inserisce anche la mia scelta di non usare WhatsApp, una trappola infernale proprio nei rapporti di lavoro.

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    1. Perciò Luz capisco proprio bene ciò che scrivi, a maggior ragione perché ho molte amiche insegnanti, di quelle a cui piace questo lavoro-vocazione e proprio per questo rischiano di non staccare mai dal ruolo (a volte coprono anche le mancanze di alcune colleghe che la vocazione invece proprio non la sentono...) Ai giovani purtroppo stiamo lasciando una pessima eredità. Conosco neolaureati 110 e lode in discipline tecniche di livello pagati meno di un giovane operaio e costretti a subire, tra le altre cose, sessioni di coaching in cerchio con i colleghi, quasi sedute spiritiche, dove a turno diventano oggetto di contestazione. Al limite di denuncia. Per questo a loro dico sempre di andarsene subito all'estero, fare carriera là dove ci sono più etica, più opportunità e stipendi adeguati, e semmai tornare dopo i 40-45 anni...

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    2. Ricordo il passaggio che facesti e la fatica - e il coraggio - occorrenti. Hai valutato e scelto e adesso avverto dalle tue parole hai raggiunto un equilibrio maggiore, benché in effetti poi i "contro" non se li possa risparmiare nessuno.
      Riguardo a quel 38% in meno sullo stipendio, mi hai ricordato i miei inizi in cattedra: stipendio equiparabile a una commessa di un buon negozio, 1280 euro. Chi se le dimentica quelle buste paga? Rimase quella cifra per anni, per tutti gli anni prima della conquista di una cattedra fissa (che però sei costretta a sceglierti anche in luogo lontano e scomodo pur di acchiapparla) e poi non è che nel tempo sia aumentato di chissà quanto.
      Leggevo in questi giorni la notizia che in Germania si cercano insegnanti, i giovani sempre meno si sentono votati a questo mestiere e addirittura in alcune province si richiamano i pensionati della scuola. Ci avresti mai scommesso? E leggi qui:
      Alla scuola secondaria in Italia si arriva a guadagnare 33.811 euro lordi annui, stipendio decisamente più basso rispetto ad un docente francese che arriva a 45.505. Addirittura i colleghi tedeschi guadagnano il doppio, 73.557.

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