martedì 26 settembre 2017

Il valore del dialetto (ovvero: il Vernacoliere)

Facciamo una riflessione molto seria: siamo tutti d'accordo che il dialetto abbia un valore indiscutibile? Me lo auguro, anzi forse non ne dubito neppure. 
Amiamo leggere e scrivere in italiano corretto, ma probabilmente ci capita anche di imbatterci nel dialetto dei nostri luoghi di origine o di adozione. Io mi colloco fra il cosentino e il romano (spesso coniugato in "romanaccio"). Se parlo in dialetto è presto detto. Ogni volta che mi ritrovo in famiglia, a Natale o in estate, mi piace abbandonarmi a qualche intercalare. Non che mi esprima esclusivamente in dialetto, ma mi piace calcare la mano e riderci su. Fin da piccola non sono stata abituata al dialetto.  Forse in fondo perché si incontravano nella mia famiglia definizioni calabresi e siciliane, e nessuna prevaleva sulle altre, semplicemente convivevano felicemente e i miei parlavano in italiano.
Alcuni miei cugini rimasti al sud lo parlavano e parlano tuttora correntemente, mia madre e le mie zie lo adoperano come lingua pressoché esclusiva. Io ho fatto orecchio da un ventennio al romano, in tutte le sue flessioni dei paesini a sud della capitale, che qui si chiamano Castelli. Finché non ci vivi, tutti sembrano parlare in romano, ma poi ti rendi conto che esistono differenze sostanziali.
Riconoscere un valore indiscutibile al dialetto dovrebbe far parte di una morale comune. Semplicemente perché si tratta di tradizione, di storia, di origini, di trasformazioni miste di eventi e di genti diverse. Nel dialetto calabro ad esempio si trovano termini francesi e spagnoli (penso alla "cassarola" la pentola il cui nome deriva dal francese "casserole", per dirne una). In alcune zone interne vivono comunità di origini albanesi, i cosiddetti arbereshe che miste ai calabresi autoctoni hanno dato luogo a ulteriori arricchimenti del parlato. Poi ci sono i grecanici, gli occitani, alcune comunità curde. Queste etnie hanno il merito di aver preservato le loro lingue d'origine, di averle difese e tramandate. Oggi vivono disseminate in tutta la regione, e dal loro incontro sono sorte nuove forme, termini, condivisioni. 

Nell'epidermide di un uomo si possono trovare, sopra, le ferite superficiali, vergate in italiano, in francese, in latino; sotto ci sono le ferite più antiche, quelle delle parole del dialetto, che rimarginandosi hanno fatto delle croste. Queste ferite, se toccate, provocano una reazione a catena, difficile da spiegare a chi non ha il dialetto. 
C'è un nocciolo indistruttibile di materia, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un'altra lingua. 
Luigi Meneghello, Libera nos a malo

Questa citazione vibra di verità e bellezza. Anche Pirandello dice che il dialetto è "la cosa stessa". Ma ora spostiamoci dalla solennità dei discorsi e andiamo al dunque. 
Il dialetto parlato da mia nonna, nata nel 1916, era "estremo". Usava termini sconosciuti perfino a mia madre, per dirla tutta. Una volta, aiutandola a portare le buste (lo so, in altre regioni si dice "borse") della spesa, mi disse: "proiamilla e valla scunta", che per me è rimasto l'esempio più bizzarro di dialetto estremo. Io la guardai cadendo dalle nuvole e mia madre mi venne in soccorso: "dice di passarle la busta e andare incontro a tua sorella sulle scale". 
Un pomeriggio, mentre studiavo da un'amica al piano di sopra, sua nonna, credo più anziana della mia, del tipo vecchia donnina vestita di nero, mi chiede: "chini a basciu?". Ovviamente non capii e glielo feci ripetere più volte, ogni volta la vecchia signora era più nervosa e contrariata, fino a quando sua nipote mi disse che voleva sapere se di sotto qualcuno era in casa. 
Potrei raccontarne a decine. Ricordo ognuno di questi momenti perché la mia curiosità mi ha spinto a pormi tante volte domande a riguardo e a saper apprezzare ancora oggi questo "folklore". 
Ora gioco un po'. 
Scelgo l'incipit di due dei miei romanzi prediletti e cerco di tradurli nel mio dialetto d'origine. Non so cosa accadrà, credo lo scoprirò mentre scrivo, ma già pregusto il divertimento. Quello che è certo è che per accostare lo stile di uno scrittore raffinato alla koinè diàlektos bisogna fare uno sforzo. 

Incipit di David Copperfield, di Charles Dickens
Si paru iu stessu o si paru ancunu atru, si' pagini vu fannu vida. Pe cuminciari a vita mia quannu signu venutu aru munnu, mi ricuardu ca signu natu (cumu m'hannu dittu) i venerdì, ari dudici da notti. E' statu dittu ca cumu l'orologiu ha cuminciatu a suna', iu haiu cuminciatu a chianci. 

Incipit di Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar
Caru Marcu miu, 
stamatina signu iutu addu u miadicu, Ermogene, ch'è binutu ultimamente ara Villa i nu lungu viaggiu in Asia. Pe mi visita' avia di sta' diunu e n'aviamu i vida i prima matina. Hai appoggiatu u mantellu e ra tunica, mi signu misu supu u liattu. Ti risparmiu i particolari ca un su belli né pe tia né pe mia...

Ha un "quid" di comico, trovate? Questo perché si fondono linguaggi solenni alla lingua comune e il messaggio risulta non convenzionale, "altro". Ci sono però anche esempi virtuosi di traduzioni, come quelle del Piccolo Principe in diversi dialetti.

Cosa pensate del dialetto? Se vi va, provate a fare lo stesso esperimento con un post nei vostri blog. :)

16 commenti:

  1. Il dialetto è parte integrante di un'identità - storica, culturale, etnica. Il fatto di non parlarne nessuno è forse uno dei motivi per cui mi sento spesso un po' "orfana". Sono italiana, ma di dove? Sono nata a Bologna ma mia madre è siciliana e mio padre un campano trapiantato a Genova in tenerissima età e poi a Bologna. In casa mia si parla solo italiano e non ho frequentato in maniera continuativa nessun parente che parlasse un dialetto, in modo da impararlo anch'io. Attualmente, capicchio il siciliano e il bolognese. Capicchio, non capisco. Quando, anni fa, dissi a un mio zio che perdere il dialetto sarebbe un grande peccato, mi ha accusata di essere di mente chiusa. Tralasciando l'irritazione, credo che rinnegare le proprie radici non porti mai a nulla di buono. Se man dovessi andare a vivere all'estero e costruirmi una famiglia lì, vorrei che i miei figli parlassero l'italiano. La lingua è una marca di riconoscimento, sono radici, è un sentire dell'anima. Il dialetto è un po' la versione in piccolo di questo discorso. Ovvio che non si deve trascurare l'italiano per il dialetto, ma non saperne neanche uno è un vero peccato.
    Interessante questo post!

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    1. Grazie per il tuo apprezzamento, Virginia.
      Dal tuo discorso imparo che possono anche esserci casi di mancato apprendimento del dialetto, in particolare per i figli di genitori "emigrati" in altre regioni. Io ho appreso un po' di siciliano da mio padre, nonostante lui fosse "emigrato" in Calabria, perché usava espressioni tipiche, accento, e diciamola tutta era anche un gran "paroliere", gli piaceva storpiare le parole all'uso dialettale del suo paese d'origine. In qualche modo, tenne viva l'abitudine.
      Non comprendo la conclusione cui è giunto quel tuo zio. Di mente chiusa credo sia proprio colui che nega un valore che invece è innegabile.

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  2. Lo sai che ogni volta che apro bocca, da quando sono a Roma, non fanno che dirmi alternativamente: sei calabrese o siciliana? Perché diciamo che la cadenza pesantuccia caratterizza entrambi i linguaggi e anche il dialetto è simile: non ho avuto difficoltà a leggere e "tradurre" i brani che hai citato.
    L'esperimento è divertente. Lo prendo in considerazione. 😉

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    1. E poi ne hai fatto un post divertentissimo.
      Anch'io vengo scambiata per siciliana o pugliese prima che per calabrese.
      Diciamo che ci sono dei cliché attorno a questi accenti e dialetti. Il calabrese è creduto paro paro quello del cabarettista "Franco", non so se conosci l'articolo. :)
      Invece per esempio quel modo pesante di parlare caratterizza le province ioniche e non tirreniche. Sul versante cosentino è più una cantilena (per certi aspetti insopportabile), ma non si pronuncia, per esempio, Antonio con doppia "t".

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  3. Il dialetto, per chi lo parla correntemente, non è dialetto ma lingua madre.
    Riguardo l'esperimento che proponi potrei farlo sino a un certo punto. In primo luogo perché anch'io sono poco dialettale (a casa mia si è sempre parlato italiano corretto e quella è la mia lingua madre in tutti i sensi); e poi perché il dialetto delle mie parti è praticamente una variante del romanesco, che fondamentalmente è (come diceva il mio professore) italiano parlato con qualche troncatura e alcuni vocaboli desueti. Insomma, penso che verrebbe fuori qualcosa di comprensibile per chiunque ma incredibilmente comico. Prova a immaginare il monologo di Amleto così: "Esse' o non esse', è questo er problema"... la drammaticità scompare suo malgrado :-D

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    1. E dai, perché non ci provi? "Esse o nun esse" è davvero spettacolare! :)

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  4. Qua dalle mie parti il dialetto non c'è, solo deformazioni della lingua italiana. Un esempio estremo che usiamo per gioco con i forestieri è questo domanda-risposta:

    " Sa'a di' d'anda'? "
    " Tu ma'a di'ndo' "

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    1. Quando è così non è che non ci sia dialetto, diciamo che si profila come una vera e propria lingua "altra". :)

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  5. io sono cresciuto in una zona "di confine": ma un confine antico, dei tempi del Barbarossa o giù di lì. Il confine fra Como e Milano, che nei vecchi si sentiva moltissimo e oggi un po' meno. Così, avendo orecchiato un po' di dialetto (in casa mia si era veneto emiliani) ogni tanto ci provavo anch'io, ma bastava fare cinque chilometri per sentirsi dire "ma non si dice così!!!". In verità, non esiste il dialetto, esistono i dialetti. Conosco diversi episodi divertenti in proposito, divertenti perché fino a poco tempo fa ci si rideva sopra, ma poi sono arrivati i barbari (a partire dalla Lombardia, purtroppo) e la cosa è diventata perfino preoccupante. Anch'io mi diverto spesso col dialetto, in ogni caso :-) qui in Lombardia, anche senza muovermi, ho ascoltato tutti i dialetti d'Italia

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    1. Dici bene, perché in terra lombarda sono in effetti arrivati un po' tutti.
      Leggendoti non so perché mi è venuto in mente il dialetto nel teatro goldoniano, che fu un marchio di fabbrica di tanta sua drammaturgia.

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  6. Pur essendo nata e cresciuta a Milano, e avendo il papà milanese, non conosco il milanese anche se mi piace molto ascoltarlo e, ogni anno, prendo il calendario El Milanes con aneddoti e curiosità.

    Per contro, parlo benissimo un dialetto trentino, nello specifico il fiemmazzo. Nella mia infanzia andavo d'estate in Val di Fiemme, dove avevo numerosi parenti per parte materna... e così parlavo il dialetto, di nascosto, però, da mio padre che temeva lo ripetessi anche a scuola; cosa che per fortuna non succedeva.

    E' vero anche che il dialetto varia anche a bevi distanze, infatti a Cavalese, a pochi chilometri da Tesero, lo parlano con un accento un po' diverso. Per un orecchio esercitato si coglie benissimo la differenza! Il dialetto trentino in generale ha un po' la cantilena del veneto, ma con delle durezze teutoniche, infatti conserva delle parole come "slofèn" per indicare "dormire" che deriva da "schlafen". Tuttavia queste espressioni si vanno perdendo.

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    1. Leggendoti mi sembra di assaporare un bel confronto fra chi viene dal sud, in un misto di calabresità, sicilianità, e napoletanità (da parte di miei prozii materni) e chi invece può aver attinto ad alcune parlate dell'estremo nord italiano.
      Mi domando se questa forte differenza fra dialetti e accenti esista in altra parte del mondo. Siamo un paese prodotto da ibridi e arzigogoli culturali. :)

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  7. Simpatiche le tue traduzioni! Certo che il tasto delle "u" rischia di scolorire presto... ;) I dialetti mi piacciono, anche se uso solo qualche espressione dialettale bolognese o friulana qua e là; ma non ho un rapporto affettivo con le tradizioni in generale, anche se sono le nostre radici e come tali le rispetto.

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    1. Sì, in effetti la "U" è prepotentemente presente. :)
      Anch'io come te non ho una vera e propria dimestichezza con il dialetto. Nonostante non lo pratichi, lo ricordo perfettamente, e ciò mi fa pensare che lo abbia assorbito, metabolizzato, anche solo ascoltandolo.

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  8. Nutro rispetto per i dialetti, così autentici, ma non ne so parlare uno anche se li ho ascoltati tante volte e li trovo affascinanti. Più o meno comprendo quello mantovano, milanese, comasco, veneziano. Con altri ho maggiori difficoltà. Credo che scrivere in dialetto sia ancora più difficile. Nel mio romanzo scelsi di introdurre un dialogo in siciliano tra due protagoniste sull'orlo di una crisi di nervi e per farlo mi rivolsi a un amico di Palermo.

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    1. E' universalmente riconosciuto che il siciliano introdotto in un romanzo conquisti tutti. Fecisti bonu. :)

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