mercoledì 19 maggio 2021

Il caffè di Luz e Marina: cosa pensiamo del "politicamente corretto".


LUZ   Ci siamo prese una pausa, ma eccoci tornate al nostro caffè (mea culpa, ho avuto mesi impegnativi, un anno scolastico estenuante che finalmente sta per concludersi). Cara Marina, vedo che hai portato delle leccornie che al solo guardarle fanno venire l'acquolina in bocca. Cosa sono? :D

MARINA  Oggi ho preparato uno snack dolce pensato per i miei figli, quando tornavano dalla scuola materna, ma che ha continuato a deliziare le loro merende anche dopo. Delizierà, spero, anche questo nostro caffè. Sono dei mini coni semifreddi, con una crema meringata ricoperta di cioccolato fondente. Mini mini, così piangiamo con un occhio! :D

LUZ   Ecco, sono perfetti. Vorrei affrontare assieme a te un tema oggi molto in voga: il "politicamente corretto". Si rischia di muoverci su un terreno accidentato, ma noi sappiamo usare bene le parole, vero? :) Quindi non temiamo nulla. Intanto, per introdurre questo tema, voglio ricordare la prima volta che sentii questa espressione. Accade all'università, durante una lezione di Semiologia delle arti. Era l'epoca del celebre "Pocahontas" al cinema e il nostro professore disse che il film era "politicamente corretto", nel senso che dava voce alla vessata etnia dei nativi americani senza temere di scontentare i bambini, che avrebbero voluto animali parlanti, nella migliore tradizione Disney, e invece si erano ritrovati con una storia più vicina alla realtà, una storia che percorreva un intento diverso, con un fine solidaristico. 
Tu quando la sentisti per la prima volta, e che definizione daresti? 

MARINA  Non ricordo un momento particolare, in verità; credo che l’espressione si sia imposta particolarmente alla mia attenzione quando certi dibattiti (soprattutto politici) hanno cominciato a farne un uso strumentale di stampo ideologico. E come lo definirei il “politicamente corretto”...: una iattura! :)
Seriamente, salvando le origini nobili del movimento, adesso credo che il concetto, con tutto quello che ha rappresentato in passato, stia sfuggendo un po’... parecchio di mano. Sai cosa mi viene in mente? La pallina lasciata scivolare su un piano inclinato: prende sempre più velocità ed è inarrestabile. Tu non hai la sensazione che la principale funzione del “politicamente corretto” abbia finito per diventare un’ideologia sempre più erratamente stringente?

LUZ    Sono vagamente propensa a pensare che il concetto sia sottoposto a un deragliamento, ma solo se lo guardo in una prospettiva un po' limitata. E questo è un peccato, perché di fatto nelle intenzioni iniziali nasceva come un modo per arginare certi fenomeni ormai inaccettabili, nel tentativo di proporre soluzioni. Mi spiego. Il politicamente corretto investiva il campo della comunicazione, mi piacque il senso di responsabilità nel raccontare in modo diverso una storia oppure nel raccontare storie che prima nessuno avrebbe narrato. "Politicamente corretto" è un principio di equità, un tentativo di rompere argini dapprima inattaccabili. Dare voce ai nativi americani in lotta perché le terre sacre per tradizione non venissero sottoposte allo scempio del business è corretto politicamente, per fare un esempio. Il senso era e resta "volgiamoci verso una minoranza vessata e diamole voce". L'intento era e resta nobilissimo. 
Però, attenzione, queste erano le origini, quando tutto era più semplice perché fuori da logiche social, quindi non era difficile accettarlo come principio. Nasceva negli anni Ottanta, si sviluppava nei Novanta, costituiva il progresso del pensiero libero. Non dobbiamo incorrere nell'errore che abbia finito per oltraggiare il senso del pensiero libero, perché lo svuoteremmo di significato. Il politicamente corretto che coincide con la cancel culture non è secondo me un principio accettabile. È il degenerare di una tendenza, non la trasformazione di quel nobile principio. Ora, fammi capire cosa pensi nello specifico. Perché secondo te "abbia finito per diventare un’ideologia sempre più erratamente stringente". 



MARINA   Io sono d’accordo con quello che dici. Quando ho notato che il politically correct stava diventando un concetto “inflazionato”, usato in ogni dove, servito in tutte le salse, vestito da dibattito politico o da visione ideologica, non ho voluto farmi condizionare e sono andata a cercare cosa fosse realmente, scoprendo le origini nobilissime. Ma come succede ormai sempre più spesso, un fenomeno parte in un modo e si dilata occupando spazi inappropriati. Ormai tutto passa dal vaglio del politicamente corretto: un’opinione, un modo di dire, senza considerare le etichette con cui, di recente, sono stati bollati film e cartoni animati. E non voglio entrare nel merito, perché se ne parla già tanto e io, francamente, sono stanca di sentire polemiche su Biancaneve, Lilli il vagabondo, la Bella e la Bestia, Grease e chi più ne ha più ne metta. Là diventa “stringente”, perché si arriva al punto che non si possa dire nulla o che si debba dirla in un certo modo se no vieni tacciato di razzismo, omofobia, sessismo... C’è un limite a tutto e credo che questo limite sia stato abbondantemente oltrepassato. Infatti tu hai ragione, si tratta di una degenerazione, che ha finito per vanificare la sua reale portata. E poi una deriva ne tira in ballo un’altra: dalla banalità dell’asterisco utilizzato per non usare le desinenze classiche che identificano i generi, al fenomeno, per me grave, della “culture cancel”, ormai dilagante.
Tu riesci ancora a salvare la parte buona del politicamente corretto? Cosa si dovrebbe fare per “ripulire” il concetto da tutte le esasperazioni che hanno preso il sopravvento?

LUZ   Semplicemente non alimentando le polemiche attorno ad alcune questioni. Chi crede realmente che tutti, nessuno escluso, coloro che sono per il politicamente corretto siano disposti a mettere in discussione le storie Disney, le statue di personaggi di un passato storico, qualche film celebre? 
Si commetterebbe un errore madornale se il politicamente corretto venisse identificato con queste follie. Dobbiamo continuare a difenderne il valore imprescindibile nonostante tutto, dobbiamo essere in grado di distinguere il principio base dalle degenerazioni di un deragliamento, come mi piace definirlo. 
Il politicamente corretto deve legittimamente ritagliarsi un posto all'interno di ogni dibattito, ma non può né deve essere confuso con queste esagerazioni, piuttosto se ne può accettare la sovrapponibilità. Credo che il fenomeno social abbia dilatato i margini dell'equivoco, basti pensare alla moltitudine che mette in discussione anche uno slogan, una vignetta, lo slang di una comunicazione che non vuole essere sempre ambigua. Mi imbatto a volte in discussioni attorno a una frase, a un modo di dire, volendoci trovare per forza la cosa che non va, il quid da criticare e da cui scostarsi schifati. Ma non scherziamo. Il punto è che è ormai facilissimo scrivere un trafiletto contro il risveglio di Biancaneve e farlo passare per oro colato. Ecco il problema. Basta che un pinco pallino qualunque in vena di creare polemiche scriva una boiata e i "deragliati" gli vanno dietro, inneggiando alla scoperta, mentre magari dietro c'è tutto un progetto di destabilizzazione, una manovra studiata. 
Non sembra anche a te che non emerga l'oggetto ma la discussione attorno ad esso? Mi viene da sorridere dinanzi a certe cose. 

MARINA  Sì, ormai è così, non c’è dubbio, per questo credo sia un fenomeno che non puoi più ricondurre alle sue origini: si è contaminato troppo e certi dibattiti hanno stancato. Tutto è politicamente corretto o scorretto e io, che analizzo la cosa senza l’ossessione e l’annebbiamento ideologico, dico che bisognerebbe innanzitutto smetterla di strumentalizzare il concetto e metterlo al centro di una battaglia fra partiti: la sinistra seria e progressista che difende codici etici e valori, la destra cialtrona e conservatrice che la butta in caciara. Non è la storiella di Biancaneve o le cretinate che sfornano gli zuzzerelloni sui social a preoccuparmi, ma più la tendenza a interpretare e tradurre certi pensieri e certi atteggiamenti come necessariamente connessi al politicamente corretto. Perché parlare di razzismo se qualcuno ha a cuore il principio d’identità di un popolo? Razzismo vuol dire segnare una differenza fra la mia etnia e quella di un altro e ritenere che la mia sia superiore; significa segregare un popolo, discriminarlo, ma per me questa è cosa ben diversa (è deprecabile, ovviamente) dal sostenere un dibattito ragionevole sull’”invasione” straniera. Perché comportamenti radicali di certe religioni sono da tutelare e io, da cristiana, non posso difendere le mie tradizioni se no manco di rispetto a qualcuno che non le sposa? Faccio esempi, ma non sono casuali. Tutto è asservito alla legge delle ideologie. E allora sì, che si è portati a credere che il politicamente corretto serva solo a mettere bavagli davanti alla bocca, a ostacolare il libero pensiero, attribuendogli spesso significati che non ha. E non ti fa sorridere la mancanza totale di prospettiva storica in chi si ostina a guardare il passato con gli occhi piantati al presente che stiamo vivendo? 

LUZ  Tu menzioni il riferimento a fazioni politiche, ma qui siamo in un campo diverso, certo un altro aspetto che non si può ignorare. Mi offri l'opportunità di dirti la mia. Tu chiedi: Perché parlare di razzismo se qualcuno ha a cuore il principio d’identità di un popolo? In effetti questi due termini, razzismo e principio di identità di un popolo non sarebbero in conflitto, lo sono nel momento in cui si difende il principio mediante la parola "invasione". Giocoforza una sinistra progressista ti risponderà "occhio, rischi di sconfinare nel razzismo". Non esiste dibattito "ragionevole" dinanzi a una parola così forte e inequivocabile come "invasione". Chi si sente "invaso" (sbagliando, perché le stime dicono esattamente il contrario, se vogliamo guardare solo ai numeri), dimentica l'aspetto umano della questione. Il fatto che dietro ai migranti ci siano esseri umani alla disperata ricerca di una possibilità di sopravvivenza è un fatto incontrovertibile, innegabile. Che questo sia poi anche un problema politico, sociale, economico, è un altro paio di maniche e riguarda il dibattito europeo e una vera intenzione di inclusione. È evidente che una certa destra leghista NON voglia risolvere il problema migranti, perché serve per additare il "nemico" e aizzare gli elettori. Poi chiedi: Perché comportamenti radicali di certe religioni sono da tutelare e io, da cristiana, non posso difendere le mie tradizioni se no manco di rispetto a qualcuno che non le sposa? Nessuno difende la radicalizzazione di certe religioni, anzi. Se per radicalizzazione intendi posizioni irremovibili che non includono il compromesso, nessun progressista ti dirà è giusto così. Il progressista difenderà il diritto di un mussulmano di professare il proprio credo, per fare un esempio, senza imporre il crocifisso nei luoghi pubblici, cosa sacrosanta in ogni stato che si professi laico (il crocifisso non è scomparso dai luoghi pubblici per rispetto ad altre religioni, come sai). Diverso il discorso di scuole in cui non si fa il presepe perché cozza contro il Credo di buona parte degli alunni. Io sarei per la valorizzazione dell'una e delle altre religioni, sarei per un'inclusione vera, per il dialogo aperto. Insomma, per un'azione realmente cristiana, perché Cristo questo ci ha insegnato. Finché si penserà "io sono io, dentro la mia posizione e la mia identità", schierandosi in una posizione di difesa, allora, ahimè, facilmente si potrà ravvisare in questo un certo razzismo. Il politicamente corretto genuinamente tale porterà invece a una pacifica convivenza, o perlomeno a una convivenza tollerata, esattamente come da sempre è stato nella Storia quando i popoli sono migrati sua sponte o obtorto collo. Siamo due donne che dialogano da due posizioni differenti, mi rendo conto. Il mio progressismo mi porta a ritenere auspicabile, oltre che possibile, una convivenza pacifica fra etnie diverse, senza per questo tradire la mia identità, anzi. 
Noi italiani siamo il prodotto di un insieme molto ampio di etnie e popoli diversi, lo dimentichiamo spesso. Il nostro principio identitario è scolpito nella religione, ma il mio credo non può né deve essere quella variabile che mi rende impossibile il dialogo interculturale. 
Mi sono dilungata. :)  Andiamo sulle parole: trovi sia giusto essere attenti nei riguardi di certe parole? È giusto dire "diversamente abile" e non "disabile", per dirne una? 

MARINA  In realtà, ti confesso che certe volte vorrei essere schierata, perché ciò renderebbe più agevoli e comodi i miei ragionamenti. Invece, ho una posizione di assoluta estraneità alle ideologie per cui spesso mi trovo nella condizione di dare ragione agli uni per certi versi e in determinati ambiti e torto agli altri e viceversa.
Non apro contraddittori su migranti e religioni, perché il discorso è sicuramente più complesso di come l’ho rappresentato; volevo solo fare degli esempi su come, spesso, questa visione ideologizzata porti a tirare delle somme, che non sempre corrispondono al vero (ho usato il termine “invasione”, ma l’ho appositamente messo tra virgolette, per dare solo enfasi alla mia riflessione). Il mio discorso, e torno al politicamente corretto, è: vogliamo smetterla di trovare sempre l’errore nelle espressioni usate o avere la presunzione di sapere cosa si volesse esattamente dire, a prescindere da chi la dica? Solo così, secondo me, si può tornare alla purezza del concetto. Il rischio è anche quello, senza scomodare tematiche di respiro diverso, di cavillare su questioni che sfiorano l’irrilevante: ma cos’ha di offensivo il termine “disabile”, per esempio? Capisco perfettamente il termine “ricchione” o “handicappato”, brutti, cacofonici, ma perché la necessità di “abbellire” termini che, in sé, non hanno nulla di negativo: non ci sono più i parrucchieri ma gli hair stylist, cos’ha il termine “mamma” che disturba chi non lo è? Lo sapevi che il sindacato dei medici inglesi, in nome del politicamente corretto, ha vietato di chiamare una donna incinta “futura mamma” per non ferire le persone transgender? O quella faccenda della Rowling, citata in altre nostre conversazioni a riguardo, accusata di transfobia perché le stonava la sostituzione del termine “donna” con “persona con le mestruazioni”? Come non darle ragione! Ma non ha qualcosa di “estremizzante” tutta questa attenzione al linguaggio?
Tu, da insegnante, hai mai trattato questo argomento con i tuoi studenti e, casomai, come?



LUZ  Sconfinare nella politica è purtroppo inevitabile, perché tutto questo è anche politica. Riguarda il vivere civile, il rispetto dei diritti, l'attenzione (ammetto, diventata maniacale) sull'utilizzo del termine giusto per essere il più possibile inclusivi. Se io dico "disabile", l'appellativo che sto applicando riguarda il mio punto di osservazione: tu sei disabile rispetto all'abile. Ecco lo snodo. Dire "disabile" significa distinguere, sì, ma anche discriminare in maniera limitata. Se io fossi paralizzata e fossi costretta a deambulare su una sedia a rotelle sarei definita "disabile", mentre magari le mie funzioni cerebrali potrebbero essere equiparate a quelle del genio, potrei muovermi in spazi privi di barriere architettoniche e quindi liberamente, insomma farei una vita diversa solo nel muovermi nello spazio e nella mia autonomia. Ma sono certa che l'etichetta "disabile" mi descriverebbe correttamente? E sono certa del fatto che non risuoni anche solo un po' offensiva e limitante? Perché, diciamolo, tutti coloro che hanno limitazioni più o meno gravi di salute sono posti sullo stesso piano, senza nessun distinguo, dichiarati "disabili". Non che il termine sia sparito, ci capita di dire a scuola "alunni disabili". Solo che il termine "diversamente abili" descrive molto meglio certe disabilità, non credi anche tu? Riguardo a "hair stylist", credo si tratti dell'uso smodato di anglismi, non penso riguardi il politicamente corretto. Qui sfondi una porta aperta. Aborro che si dica "week end" per fine settimana, e compagnia bella. 
Il problema transgender è molto più ampio e complesso. La questione del sesso ha molte ramificazioni, ma può essere ricondotta all'urgenza dell'acquisizione dei diritti anche per chi nasce, ahimé, con una devianza. Chi nasce con devianze non può essere abbandonato a se stesso, non può né deve restare ai margini. Possiamo solo immaginare cosa si provi a nascere in un corpo maschile e sentirsi donna? E viceversa. Deve essere terribile, e anche se ci sembra strano e non ci piace, escludere questi esseri umani dai loro diritti sarebbe aberrante. Esistono possibilità di mutazione di sesso, validate dalla medicina, bene, allora il vivere civile deve poter riguardare anche loro. Se questo significa modificare le voci dei moduli da compilare, includendo F, M, più una variabile, ti dico senza senza e senza ma ben venga. Certo, poi contestare termini come "futura mamma" mi pare assurdo. E di fatto, come dicevo all'inizio, sono i deragliamenti di questo politicamente corretto che dobbiamo rifiutare in maniera convinta. A scuola l'argomento viene trattato, quest'anno l'educazione civica è tornata a rappresentare una materia a sé e un tema come il transgender non rientra a pieno titolo fra quelli trattati, siamo più orientati verso ambiente e diritti umani nel campo dell'emigrazione e della discriminazione razziale. Mi capita di toccare l'argomento e lì sono chiarissima. Parlo in termini diretti e con larga apertura. I ragazzi sono sempre attentissimi, forse anche colpiti che una prof dica "mestruazioni", "sesso", "cambiamento di sesso" con questa disinvoltura. Devono cogliere questi termini non come tabù, ma come temi da conoscere e sui quali farsi un'idea. Non dimentichiamo che si trovano intorno ai 12-14 anni, a un'età in cui l'identità sessuale è fortissima. Emergono a volte casi di omosessualità, lì devi stare attenta, lasciare che si esprimano con libertà, serenità. La scuola può e deve fare molto. Ai tuoi figli è capitato di affrontare questi argomenti a scuola?



MARINA  Alla fine, sai cosa credo, cara Luana? Che non tutti vivono le trasformazioni, i cambiamenti, le evoluzioni alla stessa maniera e con lo stesso trasporto. Ti ricordi quando ho scritto quel post su come anche il linguaggio stia mutando insieme a molte regole grammaticali? Qualcuno mostrava una serena apertura verso il “nuovo che avanza”, qualcuno faceva più fatica tenendosi ancorato ai vecchi schemi, al “qual è” scritto senza apostrofo (per fare un esempio), alla corretta sintassi dei messaggi, inorridendo di fronte ai “ke fai e i “dv sei” delle giovani generazioni... Così, di fronte alla rivoluzione, in un certo senso, del politicamente corretto, c’è chi fa fatica ad adeguarsi, chi non capisce e si ribella, chi abbraccia le novità nella speranza che davvero la società migliori.
Io cammino col freno a mano tirato, di capire capisco, perché mi piace informarmi e se mi faccio un’opinione è sulla base di una conoscenza, però, purtroppo, non mi convincono mai i risvolti politici dei dibattiti, dunque non riesco ad adeguarmi con serenità: mi sembra solo che il progressismo prenda il politically correct e lo usi come arma per contrastare il conservatorismo di una certa destra e puoi dirla anche al contrario, che cioè il PC sia un concetto strumentalizzato da certa destra per avversare le principali battaglie progressiste. Come la metti la metti, le rivendicazioni su un tipo linguaggio più adatto, più consono, “più inclusivo” non riescono a fare presa su di me e non ho l’apertura, chiamala profondità, delicatezza, chiamala come vuoi, di notare certe differenze (penso all’ asterisco che non uso nelle desinenze, penso al “genitore uno/genitore due”, che trovo sbagliato..., anche al termine “disabile”, a dire il vero, nonostante abbia molto apprezzato la tua inoppugnabile arringa a difesa del suo “migliorativo”) :)
Ho chiesto ai miei figli: a scuola mai parlato di politicamente corretto. E loro sanno che certi termini non sono lontanamente fruibili nemmeno per scherzo: ascoltano il rap e spesso in quelle canzoni spunta il termine “nigger”, che poi esportano quasi come un vezzo. Ecco, lì m’inc*** molto. Ma qui la faccenda prende ancora un’altra sfumatura. E di sfumatura in sfumatura... potremmo stare a parlarne per ore!

LUZ   Comprendo che si possa andare a velocità diverse. È umano e comprensibile. Io stessa, e lo dichiaro in maniera convinta, rigetto tutte le espressioni estremizzanti, le strumentalizzazioni, le censure pazzoidi, le levate di scudi che sconfinano nel fanatismo. Conservo e custodisco quello che di buono e legittimo c'è, fa parte del mio vivere, del mio essere educatrice di giovani generazioni. Come sempre è stato un piacere confrontarci. 
Al prossimo caffè, Marina!

E voi, cosa pensate del politicamente corretto? 

34 commenti:

  1. Ho trovato molto interessante e articolata la vostra riflessione.
    Personalmente tendo a distinguere tra la censura, che non amo in nessuna forma e il tentativo di avere una comunicazione non aggressiva e non offensiva. Negli ultimi anni nella scuola abbiamo fatto mille corsi su questo e per quanto a volte il fine ultimo era solo l'evitare guai con le famiglie, devo dire che in qualche modo mi sono trovata a riflettere molto sul peso che le parole possono avere, sopratutto nella comunicazione diretta, sopratutto verso soggetti che possono vivere in quel momento una fragilità psicologica. Insomma, semplificando all'estremo, sono due questioni diversissime l'espressione "sporco negro" letta in un romanzo degli anni '50 e detta in faccia a un ragazzino di colore che in quel momento fatica ad accettarsi. Mi spiace enormemente quando poi questi sforzi vengono fraintesi all'esterno. Un esempio? A volte in una classe elementare si hanno casi dolorosi di lutti in famiglia e allora si cerca di modificare le attività per la festa della mamma o del papà, facendo magari fare un lavoretto "per una persona a cui vuoi bene" e da fuori viene percepito come "ah, si vuole distruggere la famiglia tradizionale!" (questo è capitato nel mio istituto, dove la mamma di una bambina si era suicidata ed era evidente a tutti i formatori che anche frasi come "la mamma è colei che non ti abbandonerà mai" erano del tutto fuori luogo). Da questo percorso ho capito che spesso non sappiamo quali dolori stiano vivendo le persone a cui ci rivolgiamo e quindi in una comunicazione funzionale e non artistica è necessaria cautela. Poi alcune cose le capisci solo vivendole. Ad esempio l'uso dell'@ per evitare femminile o maschile. Mi sembrava un'esagerazione. Bene, quest'anno ho un alunn@ con disforia di genere. Francamente non mi era mai capitato. Avevo avuto alunni che non sapevano classificarsi rispetto al genere, ragazzine molto mascolinizzate e viceversa, ma questo è proprio un caso diverso. Fin dal piccolissim@ si è identific@ come maschio. La famiglia è assolutamente tradizionale, ma ha dovuto confrontarsi con questa fortissima identità e hanno deciso di non imporgli qualcosa che non sente di essere. Anche noi dobbiamo farlo, suppongo, perchè colpevolizzare un bambin@ di undici anni non ci sembra proprio il caso. L'uso del @ continua a sembrarmi folle, però a volte è evidente come il linguaggio possa essere violenza. L'alunn@ ha un atteggiamento del tutto non provocatorio, anzi, a volte la sensazione è che, se potesse, scomparirebbe. In classe è inserit@ da pari nel gruppo dei maschi. È capitato che un formatore esterno, però, facesse una battuta poco felice. Vedendo la faccia del ragazz@ mi sono sentita male anch'io. Andando avanti temo di porrà anche il problema del bagno. Ora "grazie" al covid, la classe ne ha uno riservato. Al momento @ usa quello delle femmine e le compagne lo/la conoscono, ma visto l'aspetto e l'abbigliamento una ragazzina potrebbe trovarsi in imbarazzo se lo/la trovasse in bagno senza conoscerl@. Insomma, erano tutti problemi che ci sembravano teorici, lontani e un po' inutili, poi ci siamo trovati dentro.

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    1. So bene che parlarne e averne un’esperienza diretta sono due cose ben diverse, dunque comprendo appieno il tuo discorso. Le cose si sono complicate, perché adesso facciamo i conti con ogni rivendicazione - sacrosanta -: una volta è il genere, una volta la parità di genere, una volta l’etnia... e non è facile adattarsi a tutti i cambiamenti voluti per adeguare il linguaggio a ogni esigenza. Ci metterò nel po’ a imparare a non confondermi di fronte ai simboli non dell’alfabeto, la @, l’*... il “they” per i binari/non binari (io faccio ancora fatica a distinguerle, tutte queste tipologie di genere), se serve a non fare sentire “diverse” persone con un’identità poco chiara, chi sono io per oppormi al miglioramento di un modo di comunicare? Devo, però, prima entrare nell’ottica che davvero tutto questo migliori e non confonda, semplifichi e non crei caos. Probabilmente non sono agevolata perché di fatto non mi imbatto in situazioni e realtà come quelle che tu hai descritto e la scuola è un bel banco di prova per tutti. Pensa che io recito ancora il “Padre Nostro” nella sua vecchia formula, perché quel “non indurmi in tentazione” proprio non riesce a infastidirmi e, almeno, in questo caso, nell’intimo di una preghiera, posso ancora fare quello che voglio.

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    2. Penso che alla fine tutto dipenda dall'intenzione che abbiamo e dal grado di confidenza che abbiamo con la persona a cui ci rivolgiamo. Mio marito è portatore di impianto cocleare, se gli dico che è sordo non si offende di certo, cambia se ha farlo è qualcuno che lo conosce da cinque minuti. I vissuti, poi, sono davvero vari e complicati. Se dico che non è il caso di affermare di fronte a dei bambini che di mamma ce n'è una sola, ad esempio, non penso in primis a chi ha due mamme perché figlio di coppia omossesuale, ma, ad esempio, a un bambino che frequenta il gruppo di post adozione di mia figlia, che di mamme ne ha tre. Quella che gli ha dato la vita, quella affidataria (che tutt'ora frequenta) e quella adottiva. Per altro la sua affermazione è del tutto ineccepibile anche da un punto di vista linguistico e giuridico, perché si dice "mamma" in tutte e tre i casi. Per non parlare di quelli che hanno fratelli in altre famiglie (il nostro tribunale tende ad affidare i fratelli a famiglie diverse che però abitino vicine) che se ne escono con "domenica vado a trovare mio fratello che però vive con la sua seconda mamma e il suo secondo papà che però sono diversi dai miei". Insomma, la società è oggettivamente complicata e il linguaggio deve in qualche modo tenerne conto

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    3. Grazie, Antonella. Grazie, perché presenti col tuo consueto stile elegantissimo situazioni che sono esperienze vere. Siamo bravi tutti a discettare di questi temi così complessi, dimentichiamo che derivano dall'esperienza diretta. È vero che bisogna stare attenti con le parole, diamine. Io lo vivo ogni giorno dal mio posto in cattedra. C'è un ragazzo che ha perso il padre tre anni anni, è smarrito, ancora addolorato, ha perso totalmente la bussola. Sai quante volte avrei voluto mordermi la lingua perché lui ha tutti i diritti di non sentir dire "la figura del padre negli ultimi tempi sembra essere tramontata", quando magari si parlava di famiglia patriarcale, lui che suo padre se lo immagina chiuso in quella cassa. Si tratta di diritti, si tratta anche di essere noi sempre all'altezza di rispettarli. E se non si vivono sulla propria pelle o non si assiste in via diretta a casi particolari, si tenderà a ritenerli luoghi comuni, pure parole e basta, quando invece le parole hanno un peso. Mi colpisce molto il caso di quella disforia. Vedendo il tuo uso del simbolo @, contestualizzato perfettamente, so che è giusto così. Perché solo posso immaginare che significhi nascere in una situazione di questo tipo.

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  2. Avete spiegato bene la questione in merito, molto esauriente e direi convincente. Il "Politicamente Corretto" sembra ormai una mania di classificazione più che un significato specifico che definisca qualcosa. Fra l'altro spesso si usano termini inglesi, come se in Italia non fossimo capaci di scrivere definizioni adeguate.

    Se poi tutto questo si trasforma in una forma di censura allora sono fermamente contrario. Mantengo quella dimensione di valutazione personale che mi permette di separare le questioni di base, ma capisco bene che nel mondo di oggi c'è il rischio che molti o non capiscono o fraintendono o assimilano qualcosa senza saperne il vero significato.

    Secondo me il "Politicamente Corretto" è diventato anche una sorta di moda, una specie di "lascia passare" utile per qualsiasi evenienza, soprattutto nei rapporti con in mass madia e questo lo vedo come qualcosa di rischioso.

    Infine direi che la vignetta di Vauro è molto chiara ed eloquente.
    Un salutone e alla prossima

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    1. La verità è che ci hanno fatto stancare, ce lo hanno reso antipatico a priori e la colpa è soprattutto di tutte quelle notiziole che come un tam tam si diffondono in rete e creano “casi” su cui, poi, si scatenano i dibattiti più inutili.
      Per me è diventata una corsa a chi la spara più grossa, a chi mi fa più ridere. Certe volte ho come l’impressione che si prenda la rincorsa per provare ad arrivare sempre più lontano: l’ultima? Il boicottaggio della statua di Marilyn Monroe, immortalata nella scena del film in cui le si solleva la gonna: apriti cielo! Promuove “upskirting e misoginia”. 😂😂 Ma cos’è l’upskirting? Almeno fatecelo capire in italiano!

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    2. Mi sento di ribadire che bisogna fare un distinguo. Una cosa sono le conclusioni cui arrivano giornalisti e sociologi o pseudotali, assieme a eserciti di webeti, che appunto parlano di "upskirting", vedono ovunque casi di "bodyshaming", sono quelli che a oltranza dicono che fare emergere le differenze etniche significhi automaticamente emarginare. Poi c'è un politicamente corretto assolutamente indispensabile. Credo che investa le stesse categorie ma da un'angolazione diversa, dettata dal buonsenso. È vero che i neri sono stati discriminati per molto tempo anche da opere artistiche, cinematografiche, teatrali, televisive (riflettevo giorni fa dopo aver letto un articolo che riportava l'assenza di attori e attrici di colore da serie di grido come Friends o Beverly Hills 90210), ma come dicevo in un recente post non sono d'accordo con il blind colour casting. Insomma, il discrimine fra le situazioni è necessario perché il principio conservi la sua valenza. Credo che una categoria davvero da comprendere e proteggere sia quella LGBT. È giusto e doveroso che ci siano finalmente diritti anche per loro, ma non sarei disposta ad accettare il "deragliamento" neppure in questo caso. Quel "loro" riferito ai casi binari per esempio mi lascia interdetta. Mentre la discussione su leggi e diritti sacrosanti mi vede paladina.

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  3. È molto facile malinterpretare che cosa dovrebbe essere il "politicamente corretto".
    Come mia personale norma generale, se viene sfruttato come forma di inclusione allora credo lo si sta usando bene. Al contrario, molto probabilmente, lo si sta solo strumentalizzando.

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    1. È esattamente quello che era e che è diventato.

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    2. Ecco, distinguere quando lo si rende vessillo ideologico per produrre un obiettivo concreto da quando lo si strumentalizza rendendolo sterile. Sono assolutamente d'accordo. La legge Cirinnà sulle unioni civili, per esempio, la modifica al diritto di famiglia, non fu frutto di chiacchiere sterili.

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  4. Questo è un tema vasto e importantissimo. Vi ringrazio molto per averlo affrontato in modo molto aperto.
    Ho apprezzato molto l'intervento di Tenar qui sopra. Che dimostra come la prospettiva possa cambiare quando vediamo certe difficoltà direttamente nelle persone che le vivono.
    Fino a qualche anno fa vivevo il problema del linguaggio come un falso problema o comunque un problema meno pressante di altri.
    Oggi ho capito che non è così perché, per quanto non ce ne accorgiamo, il linguaggio segna il nostro modo di pensare e viceversa. Se usiamo sempre una parola scorretta, finiamo per plasmare la nostra mente sul significato scorretto che ha.
    È un tema molto arduo e ancora di più è trovare la soluzione, per cui credo che dovremmo tutti porci in ascolto senza posizioni aprioristiche.
    Tuttavia, è altrettanto vero che non si può fermare l'evoluzione del linguaggio e il problema per esempio del linguaggio di genere si porrà sempre più di frequente e, in qualche modo, troverà la sua risoluzione. Si spera però che lo faccia nel modo meno doloroso possibile per tutti.

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    1. Sono costretta ad arrivare a questa conclusione, perché mi rendo conto che aumentano le realtà complicate e i disagi che ne derivano e che noi non percepiamo. Lo sforzo delle persone con un cervello pensante e una sensibilità dev’essere quello di sapere scindere le giuste rivendicazioni da tutto ciò che le offusca. Ora come ora, non vorrei mai misurarmi con la necessità di usare un linguaggio al quale non sono abituata: starei là a interrogarmi se ho detto la cosa giusta, come l’ho detta, mi verrebbero i sensi di colpa se sbagliassi un termine... ti chiamo ingegnere, ingegnera, direttore d’orchestra, direttrice... architetta, avvocata... lei/lui/@/loro/ ehm...per me sarebbe uno stress terribile! 😅

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    2. Grazie a te, Silvia, per avere apprezzato il nostro scambio. :)
      È proprio come dici. Il problema non si sostanzia nel mero gusto di mettere tutto in discussione per partito preso, insomma non ci sono solo quelle orde di "deragliati". Il problema del linguaggio c'è ed è necessario porselo. Riguardo a termini che l'abitudine accredita nel nostro uso del linguaggio, penso al termine "zitella" per definire la donna non sposata fino a circa venti/trenta anni fa. Lo si usava a spregio della persona, che si beccava pure l'appellativo a vita di "signorina" (l'esempio di una zia nubile ormai anziana è lampante). Mai definita "signora", ma solo "signorina", è già una cosa discutibile. Allo stesso modo, anche se il caso è diverso, definire "signorine" le dottoresse molto giovani, sono casi di discriminazione, senza se e senza ma.

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  5. Questione interessante e per nulla scontata. Io credo che si dia troppo peso a qualcosa che è detto senza malizia e troppo poca ad affermazioni gravissime fatte con intenzioni provocatorie, discriminatorie o violente (e purtroppo di queste ultime abbiamo testimonianza ogni giorno). Come scritto nel post, c'è un abisso fra il "politicamente corretto" e il grottesco dilagare di questa "damnatio memoriae" contemporanea di cui persino il povero e ignaro Colombo fa le spese. Spesso il confine fra un commento, una battuta e un'offesa sta nelle intenzioni, nel contesto, nel destinatario della comunicazione (ciò non vale, ovviamente, per quelle espressioni che sono evidentemente offensive in sé): per ragioni sociali e per le funzioni di Jackobson sappiamo che non possiamo dire proprio qualsiasi cosa con chiunque e in qualsiasi luogo. Un esempio pratico e leggero (si parla licet): posso usare l'autoironja nel definirmi un "topo da biblioteca" o esibire con orgoglio questa mia caratteristica, ma la stessa espressione avrebbe ben altro impatto se detta da qualcun altro che volesse sottolineare negativamente il mio essere asociale, magari deridendomi con la complicità di altri.
    Le scorse settimane, nella mia quinta, ho affrontato la lettura di due brani letterari che, secondo gli estremisti della "cancel culture", sarebbero probabilmente da censurare. Uno era uno dei Raccontini di Saba, intitolato L'uomo nero, una riflessione amara sulla grottesca propaganda coloniale fascista; l'altro un racconto di Resistenza di Renata Viganò, Il comandante, nel quale erano nominati "Polacchi, americani e negri" fra coloro che hanno riempito le strade delle città italiane liberate fra il 21 e il 25 aprile 1945. Le espressioni usate, che oggi verrebbero subito tacciate di razzismo, non hanno evidentemente intenzioni discriminatorie (Saba irride chi motteggia il razzismo fascista, Viganò nomina i "negri" nella positiva rassegna dei Liberatori), eppure ho percepito una certa incertezza quando siamo arrivati a quelle letture. Non ho evidenziato il disagio, richiamando l'attenzione sul vero scopo dei testi, ma il dubbio sulla risposta corretta da dare ad eventuali domande sull'adeguatezza di quelle espressioni rimane. Perché, comunque la si metta, il "politicamente corretto" è un forte elemento di pressione e oggi ci porta a dubitare talvolta anche della nostra buonafede.

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    1. Sono d’accordo. Non tutto è detto o fatto con il preciso intento di ledere e offendere identità o quant’altro. Basterebbe capire questo, andare oltre, verificare le intenzioni, per evitare di rivoluzionare schemi, linguaggi, elementi ormai radicati nell’uso consolidato dalla quotidianità innocua (aggiungo, salvando sempre la buona fede quale presupposto fondamentale.) Per non parlare del passato, che non si tocca, qualunque esso sia, qualunque realtà abbia rappresentato. Davvero, si sta perdendo la bussola e il politicamente corretto sta diventando il regno delle assurdità.

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    2. Il politicamente corretto oggi, e scrivo anch'io da insegnante, ci porta a confrontarci spesso con termini e situazioni. Mi sono imbattuta anch'io, Cristina, in letture con la parola "negro". Fatalità vuole che siano proprio questi snodi a creare attenzione nei ragazzi, perché ti offrono l'occasione di affrontare il tema, far comprendere loro che si tratta di contestualizzare. Nella traduzione di Via col vento di un libro ormai vecchissimo che possiedo da anni, il termine "negro" è presente, così come nell'edizione italiana del film (c'è un passaggio di Ashley che rievoca la bellezza del tempo passato, "i canti dei negri" nella piantagione) e nel 1939 lo lasciarono così com'è, fu giusto così. Oggi ci si porrebbe qualche dubbio, lasciando che la parola emerga in quanto cardine del politicamente corretto, ma si commetterebbe l'errore di non rispettarne il senso e il contenuto originali (di fatto nel romanzo non emerge mai disprezzo verso i neri, la Mitchell si prende solo la "libertà" di descrivere come molto sciocca la cameriera di Rossella, quella ragazzina che perde la cognizione del tempo durante l'attacco ad Atlanta). Io stessa nel romanzo che ho scritto ho rimosso un ragazzino di colore che la protagonista incontra all'ovest (commettendo forse un errore), e l'ho fatto per ridurre e per evitare il termine "negro". Perché la protagonista avrebbe parlato in questo modo in una traduzione da "nigger".
      Esagerazioni? Probabilmente. A fronte però di una necessità ormai ineludibile. Noi parliamo come fossimo "w.a.s.p.", c'è gente che si vive sulla pelle una realtà da "black".

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  6. Come scritto da altri, il tema è vastissimo.
    L'idea iniziale era sicuramente corretta: evitare ogni espressione offensiva. Il concetto è encomiabile, però come tutte le cose va gestito con raziocinio, non con furia ideologica estremistica. Purtroppo è proprio ciò che sta succedendo: gruppi peraltro minoritari, ma molto rumorosi, creano questioni sul "politicamente corretto" anche su argomenti risibili, peraltro con dei toni spesso aggressivi. Sono questi gruppuscoli estremistici ad aver creato una percezione negativa riguardo il "politically correct". Peraltro, questi gruppuscoli sono spesso i primi a infrangerlo quando nominano i loro antagonisti ideologici (estremisti della sponda politica opposta).

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    1. Non aggiungo altro: facciamo lo stesso discorso.

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    2. È un po' come quando gli animalisti augurano ai ricercatori di "morire male".
      Anch'io concordo con te, ma faccio mia la valenza di questo principio, basta solo saperne definire i giusti contorni.

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  7. Le parole possono ferire e fare molto male, per questo è importante usare i termini giusti. Detto questo penso che certe esasperazioni o addirittura strumentalizzazioni siano controproducenti. Sarebbe molto più importante realizzare il rispetto nei fatti e non solo nelle parole.

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    1. Ma anche nei fatti: se io, senza malafede, uso un termine non in linea con le preoccupazioni dominanti, ma davvero devo sentirmi una cretina? Se dico in pubblico “signore e signori” davvero devo interrogarmi se fra essi ci sono quelli senza identità sessuale specifica? Sai che casino pronunciare “signor@ e signor@“, cioè... come lo dici? 😄

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    2. Rispondo a Marina: la questione non è neppure questa, dai. :) Davvero ti porresti il problema di rivolgerti a un pubblico dubitando se stai usando i termini giusti? Qui non si parla certo di mettere in discussione un "signore e signori", così come non tutti sono disposti ad accettare la sciocchezza del "*" per includere maschi e femmine. È un non problema. Io mi rivolgo alla classe, dicendo "ragazzi" comunemente, ma assai spesso dicendo "ragazzi e ragazze, mi raccomando... ecc.". Non mi pongo il problema di coloro che si sentono a metà fra l'uno e l'altro. Insomma, non è che questo deragliamento debba farci vacillare a ogni occasione. Ci sono contesti, ci sono casi singoli, ma sono certissima che se nel mio gruppo classe o nel mio gruppo allievi ci fosse un caso di disforia, se devo fare un appello saprei di poter usare il consueto "ragazzi" o "ragazzi e ragazze".
      L'errore è quello di dare eccessivo peso a questi deragliamenti come se fossero il solo modo possibile di esprimersi. Ma così davvero perdiamo il senso delle cose.

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    3. A Londra il problema se lo sono posti eccome:

      https://www.corriere.it/esteri/17_luglio_13/addio-signore-signori-metro-londra-sceglie-politically-correct-e7c35960-6803-11e7-b139-307c48369751.shtml

      Ah, già, ma gli inglesi sono quelli della “futura mamma”...!

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    4. Ecco, un esempio di "deragliamento" del concetto. Il garantismo a ogni costo. Quello che stiamo cercando forse è: questo non corrisponde al politicamente corretto tout court, questo è quel degenerare del concetto che non deve indurci a ritenerlo sbagliato o inaccettabile in toto.

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  8. Alcuni anni fa ho seguito un corso di formazione dei formatori, e sul programma era riportato che uno dei temi che avrebbe trattato il docente era la necessità per chi fa lezione di essere apolitico, acalcistico (sic)... Insomma di limitarsi a fare la propria lezione senza fare propagande di sorta. Argomento che poi a lezione non venne manco accennato, ma del resto la persona che teneva il corso non era molto competente, si limitò a poche cose dette male e frettolosamente. Per dire che magari le intenzioni sulla carta sono buone, ma nel concreto ci vogliono persone che sappiano come trattare determinati temi. Altrimenti restano solo una bella dichiarazione d'intenti. Come riprova, diverse belle cose che ci disse la persona che tenne il corso ebbe presto modo di smentirle col suo comportamento (una delle quali, clamorosamente già alla terza lezione del corso).

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    1. Predicare bene e razzolare male: dov’è la novità? 😕

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    2. Che poi che significa "apolitico"? Si fa l'errore di confondere la politica con i partiti che la compongono. Tutto è politica. Tutto il nostro vivere.

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  9. L'ultima che ho letto in riferimento al politically correct è stata qualche settimana fa l'accusa di un giornale americano contro il bacio non consensuale del principe verso La bella addormentata della Disney. Quella mi è parsa strumentalizzazione pura, con stravolgimento completo del senso della favola. Poi uscì una serie di grafiche sui vari film Disney e tutti i reati che sarebbero pubblicizzati, come il lavoro nero dei Sette nani in miniera o l'edulcorazione degli alimenti nella mela di Biancaneve. Riderci su, anche se ci sarebbe da piangere. Non sono convinta che le parole siano determinanti quanto i fatti, forse proprio per l'esempio che mi arriva dagli amici disabili. Non gliene frega niente come li chiami, disabili, diversamente abili, portatore di handicap, handicappato, invalido e così via perché sono tutti "diversi" nelle loro difficoltà e spesso solo il certificato medico lo evidenzia. Ma non sanno cosa farsene delle parole e delle definizioni se poi trovano i parcheggi gialli occupati da chi non possiede il tagliandino o sono costretti a chiamare la polizia locale perché qualcuno gli ha posteggiato davanti casa, lasciando solo lo spazio per un normodotato quando loro invece sono in carrozzina e la segnaletica è corretta. Le parole servono a includerli nella vita sociale? Fino ad ora proprio no. La vignetta di Vauro è emblematica.

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    1. Sono d’accordo. Io il discorso sul linguaggio lo capisco, solo che a volte faccio fatica a contestualizzarlo nel modo giusto. E rilevo, come dici tu, l’assenza nei fatti di una disciplina e di una comprensione del problema reale, che supera il limite dell’opzione corretta per chiamare qualcosa o qualcuno. Diamo il nome meno offensivo possibile, va benissimo, ma poi dimostriamo anche di non volere mortificare i problemi seri altrui.

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    2. Certo, per amore di coerenza l'attenzione non dovrebbe limitarsi alle parole. Assolutamente d'accordo con voi. Però le parole hanno un loro peso eccome. Negarlo oggi impedirebbe una riflessione seria su certi cliché che in tempi di ridiscussione dei valori costituiscono un "problema". Se poi uno sta attentissimo alle parole e se ne strafrega del resto, ovviamente non sono d'accordo.
      La questione Disney e tutte le assurdità connesse mi porta verso il sospetto che questi giri siano creati ad arte per sminuire la lotta vera, quella che riguarda il maschilismo imperante e tutte le problematiche attorno al mondo femminile. Che, inutile negarlo, esistono. Poi un pinco pallino "X" mette in discussione il bacio del principe e milioni di persone gli vanno dietro. Peccato.

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  10. Con me sfondate una porta aperta, ragazze. �� Come molti movimenti che intendono rimediare a ingiustizie o storture, spesso finiscono per aggiungerne di nuove e il tutto diventa mera ideologia.
    Detesto profondamente il politicamento corretto, che si traduce in un rispetto di forma e non di sostanza, che non vuole davvero risolvere i problemi. Finisce nel migliore dei casi per riverniciare la superficie delle cose e, nel peggiore, per tacciare l’altro di atteggiamenti offensivi e imbavagliarlo. Secondo il politicamente corretto, per esempio, la maggior parte della satira non potrebbe esprimersi perché considerata lesiva di alcune categorie. Pensiamo soltanto al Milanese Imbruttito, io rido a crepapelle ma un domani qualche esaltato potrebbe ritenersi insultato dalla presa in giro dei miei concittadini.
    Il politicamente corretto non può esistere quando di parla di eventi o personaggi storici: è un’aberrazione.
    Il punto è che noi siamo politicamente scorretti a prescindere, per il solo fatto che esistiamo e per come lo facciamo!

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    1. Il punto è che nelle sue origini era un movimento di pensiero, un'ideologia nuova assolutamente necessaria. Nata proprio con l'obiettivo di difendere le minoranze, spegnere il razzismo, la discriminazione. Quello in cui si trasforma col tempo, il suo degenerare in un garantismo che offusca il valore originario, secondo me può essere scisso dal suo nucleo, che resta indispensabile. Il termine e la sua definizione principe sono un serbatoio di valori che non si può negare.

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    2. Hai detto tutto tu, Cristina.
      La teoria del piano inclinato, Luana: lascia scivolare giù la pallina e questa andrà sempre più velocemente e sempre più in basso. Il politicamente corretto, purtroppo (e lo sottolineo perché anch’io salvo il suo intento originario) è in discesa libera. I fattori sono tanti, ma ormai, secondo me, è impossibile recuperarne lo spirito puro.

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    3. Però tutto dipende da quale tipo di "narrazione" decidi di abbracciare. Io sostengo che il politicamente corretto sia danneggiato da deragliamenti, mentre qui leggo in sostanza che non ci sia più nulla da salvare né da recuperare, vista la sua degenerazione e che quindi vada respinto come ideologia fanatica. Uhm, non mi basta. E allo stesso tempo non mi ritengo al momento abbastanza preparata per sostenere la mia argomentazione con parole diverse da quelle che ho usato finora. Ho deciso pertanto di dedicare un'ulteriore riflessione al tema, un post che sia una "storia del", esaminando le posizioni pro e contro.

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