mercoledì 3 giugno 2020

Il caffè di Luz e Marina: romanzo classico o contemporaneo?

I segnalibri di Corrie Baldauf in Infinite Jest di Foster Wallace
LUZ:   Buongiorno, Marina! Ti vedo in forma nonostante la quarantena. Ce l'abbiamo fatta, comunque, finalmente possiamo uscire all'aperto. Eccoti il mio caffè. Ma cosa hai portato?? Dall'aspetto è squisito! 

MARINA:   Eh, cara mia, continuando con i nostri incontri... e poi io non so presentarmi a mani vuote... insomma, altroché forma: la vedo molto a rischio. Vediamo se quello che ho portato oggi ti piace. Prepara i cucchiaini (e non solo per il caffè): oggi assaggerai la mia mousse al caffè con sbriciolata al cacaoUh, ma vedo che hai con te dei libri...

LUZ:      Stavo mettendo in ordine la mia libreria (non manca molto al trasloco) e ho messo insieme i tre autori classici che mi hanno emozionato di più: Charles Dickens, Charlotte Brontë e Edgar Allan Poe. Mi sono cari perché rappresentano la scoperta del gusto di leggere. Pensa che lessi David Copperfield integralmente nell'estate fra la quinta elementare e la prima media. Fu una folgorazione. E sì che avevo già scoperto anni prima la bellezza dei libri, con Alice di Carroll, Le mille e una notte. La storia di David fu una scoperta nuova. Dopo è stato tutto un saccheggiare i romanzi più famosi della tradizione inglese, passando attraverso tanti autori, ma restando nuovamente attratta dalla pagina quando mi imbattei in Poe e nel suo mondo horror gotico così travolgente. Per scoprire poi il mio romanzo classico preferito: Jane Eyre. Ecco, pensavo alla forza di questi autori e mi veniva in mente che, pur amando molto diversi autori della letteratura contemporanea, non riesco a trovare in questa quella costruzione dell'immaginario, quel fascino, quel richiamo che ancora esercitano su di me quei romanzi della letteratura classica del XIX secolo. Che ne pensi? 

MARINA:   Belli i classici! Ne ho letti tanti e continuo a farlo, dunque nulla da obiettare sulla loro importanza e sull’indispensabilità della conoscenza almeno di quelli fondamentali: i miei preferiti restano Dostoevskij, TolstojKafka, Proust, ma la lista è lunga e, in mezzo alle tante riletture, ho ancora intenzione di recuperare classici mai letti. Eppure, a proposito dell’immaginario di cui parli tu, anche la letteratura contemporanea affascina con le sue storie, ancorché presentino un’architettura certamente diversa e una formulazione che non segue gli schemi narrativi di epoche lontane. Prendi scrittori del calibro di Cortázar o Saramago, ma anche i nostri italiani Calvino, Pontiggia, Eco... e questi sono quelli già candidati a diventare i “classici” di domani, ma mi vengono in mente anche scrittori come David Foster Wallace, Haruki Murakami, Raymond  Carver: sono tutti narratori contemporanei con il pregio di avere creato folle di afficionados per i quali essi sono intoccabili. E, tolto Carver, che strizza il lettore dentro il fascino del suo minimalismo che non sempre mi prende,  Wallace e Murakami sono intoccabili pure per me. Mi piace il coinvolgimento che mi provocano: è più diretto, perché attuale. È questo che, forse, critico nella letteratura classica: lì, il mio coinvolgimento è passivo, perché sono storie che mi appartengono nella fantasia, ma non possono essere trasferite nella realtà che vivo, perché quella realtà non c’è più (non parlo ovviamente di tematiche: non si chiamerebbero classici se no, ma di ambientazione, periodo storico, stile di vita.) Non so se mi hai capito e se ne convieni. Se vuoi approfondiamo.

David Foster Wallace (1962 - 2008)

LUZ:    Uhm, farò alcune riflessioni. Premetto che i romanzieri che citi piacciono molto anche a me. Fra quelli che citi, non conosco Cortázar, Pontiggia, Foster Wallace e Carver, ecco. Questi non li ho mai letti o non ancora. Posso annoverare nel mio repertorio John Williams, Margaret Atwood, Sándor Márai, Mordecai Richler, Paul Beatty, Kurt Vonnegut e altri (questo per chiarire quanto possa conoscere di letteratura contemporanea). Li ritengo dei giganti, ho amato molto quello che hanno scritto. Mi hanno anzi fatto conoscere, capire, amare la letteratura contemporanea. Il punto è che continuo a ritenermi, nonostante questo, ancorata all'idea che la mia natura di lettrice debba molto a quella letteratura classica, in particolare dell'Ottocento inglese, francese, tedesco, russo, senza la quale sono certissima mi sarebbe mancato per sempre qualcosa. Ho la certezza che senza "attraversare" quella letteratura non sarei oggi la lettrice che sono. Non avrei forse neppure gli strumenti per conoscere sempre di più la letteratura contemporanea, che ammetto ho scoperto solo negli ultimi 6-7 anni. Ne deduco che non si potrebbe fare a meno della letteratura classica. 
Per un'affermazione come questa c'è bisogno di una prova a supporto. Allora direi di far "parlare" queste letterature, Marina, che ne pensi? 

MARINA:  Penso che il nostro tempo ci induca ad attribuire un altro tipo di efficacia alla narrativa, che garantisca un impatto diverso sui suoi destinatari. La solennità di Anna Karenina, la forza stilistica di quel testo (ne prendo uno fra mille), la costruzione monumentale della trama al servizio dei molteplici temi, favoriscono una partecipazione che definirei “patinata”. Prendi Foster Wallace, invece: con lui “ti sporchi le mani”. Intendo dire che, secondo me, tutto è legato agli effetti dell’immedesimazione recepiti dalla lettura di un testo: posso immedesimarmi in una nobile dei primi del ‘900 che vive la Belle Epoque nella Parigi di Proust, ma vuoi mettere entrare alla Ennet House di Infinite Jest e infilarti nei panni di uno dei suoi ospiti?
Per esempio, mentre sei così nervoso da sentire le tue pulsazioni fin nei bulbi oculari, e tremi così tanto da fare un Pollock sulla parete ogni volta che qualcuno ti passa una tazza di caffè, e vedi muoversi cose ai limiti del tuo campo visivo e quegli affari sono l’unica cosa che ti distrae dalle voci tipo motosega che sentì nella testa, ecco, mentre stai così arriva un’anziana signora con i peli di gatto sulla maglia di nylon che ti abbraccia e ti dice di fare una lista di tutte le cose per le quali devi essere grato oggi: ci vorrebbe davvero un po’ di feldpato a portata di mano.
La scrittura, con i segni di interpunzione che sembrano casuali, mi porta a “vedere” una persona con tutti i sintomi “vivi” che lo hanno portato in una casa di recupero per alcolisti e drogati; io, mentre leggo, sento quel nervosismo, quella frenesia nel racconto e finisco per avere anch’io le palpitazioni.
Nella letteratura contemporanea lo “show don’t tell” è quello che fa la differenza.

Edgar Allan Poe (1809 - 1849)
LUZ:    Sono d'accordo sul tuo appellarti al sacrosanto diritto di immedesimazione, meno sul fatto che i classici non lo consentano. I classici, intendo i classici di ogni epoca e luogo, sono definibili come tali proprio perché posseggono a prescindere questa caratteristica. Se così non fosse, allora i poemi omerici ci apparirebbero lontani anni luce, così come le opere teatrali di Shakespeare, monumenti alla parola e nient'altro. A mio parere, e per mia formazione come lettrice, dico che proprio la letteratura classica mi ha permesso di gustare il realismo magico dei sudamericani, i paradossi di Murakami, lo stile asciutto di Márai, la narrazione tipica di Roth. Questo come premessa generale - su cui credo tu possa concordare - nel senso che non avrei gli strumenti per capire cose che altrimenti mi apparirebbero troppo immediate, dirette, istintive. Veniamo al potere di immedesimazione insito nei romanzi classici. Cito un passaggio tratto da "Il seppellimento prematuro", uno dei mirabili racconti di Poe. 
Allucinazioni come queste, che mi si presentavano di notte, estendevano il loro terrificante influsso alle mie ore insonni. I miei nervi divennero completamente allentati e caddi preda dell'orrore perpetuo. Non osavo cavalcare, o passeggiare, né dedicarmi a un esercizio qualsiasi che mi avrebbe allontanato da casa. Infatti, non mi fidavo più di allontanarmi  dall'immediata presenza di coloro che sapevano della mia predisposizione alla catalessi, per il timore che, colto da uno dei miei soliti attacchi, io non venissi seppellito prima che la mia vera condizione potesse essere accertata. Dubitavo delle cure e della fedeltà dei miei più cari amici. Temevo che, durante qualche mio sonno catalettico di durata superiore al consueto, essi potessero essere indotti a considerarmi irrecuperabile. 
Ecco, rispetto allo stile di Foster Wallace, che mi pare faccia uno di quei monologhi di ottima fattura e per questo a me non congeniale se non immaginato sulla bocca di qualche buon attore (traspare oltretutto un certo autocompiacimento), preferisco questo stile piano, da una parte rassicurante per come agilmente mi addentro nei pensieri del protagonista, dall'altra per come mi spinge a saperne di più. Mentre voglio saperne di più, mi immedesimo facilmente nell'ossessione del protagonista, mentre so che lo scrittore tratta un tema non solo caro agli amanti del genere gotico, ma facente parte delle nostre paure più sommerse: essere sepolti vivi. La scrittura avanza piana e insinuante, si sente tutto il peso di questo timore claustrofobico. Entriamo nei pensieri dell'uomo e già prefiguriamo il momento in cui i suoi incubi, al 99%, diventeranno realtà. Che ne pensi?

MARINA:  Aspetta, forse mi sono spiegata male. Non penso che i classici non consentano l’immedesimazione, anzi! sapessi in quanti panni mi sono infilata: nell’insoddisfazione senza via d’uscita di Emma Bovary, nell’amore malato e distruttivo di Catherine Earnshaw... e potrei continuare, dico solo che la natura di questa immedesimazione è inevitabilmente diversa. E ora provo a spiegarti meglio, fermo restando l’innegabile carattere formativo dei classici, che - ribadisco - se no, non sarebbero tali (una ballerina di danza moderna è veramente brava solo se ha studiato danza classica, quindi concordo perfettamente con te sul fatto che un buon lettore, ma anche un buon scrittore, si riconoscono dal modo in cui hanno assorbito nel tempo le letture classiche.)
Nel brano che hai proposto si percepisce la paura di Poe grazie alla descrizione di una sua sensazione e la claustrofobia, l’angoscia provate sono trasmesse attraverso il contenuto delle parole: mi immedesimo nel pensiero di chi sta narrando, ma non sono lì con lui. Intendo dire che la letteratura contemporanea predilige un linguaggio verbale che si modella sulle caratteristiche di una sceneggiatura, dunque c’è, per così dire, una visualizzazione della narrazione letteraria come se si fosse dentro un film: più diretta, immediata, tangibile. Nella letteratura classica, sono le parole, le descrizioni, l’astrazione ad avere priorità e a creare suggestioni nel lettore, in quella contemporanea è l’azione messa in scena, per cui anche la vita interiore o le implicazioni psicologiche dei personaggi passano attraverso le immagini. Le informazioni sono implicite nell’azione e ne costituiscono il sottotesto.
Secondo te, quali altri elementi potrebbero segnare la differenza fra classico e contemporaneo?

LUZ:   Sì sì, non mettevo in dubbio la tua attribuzione di valore alla letteratura classica. Ogni buon lettore ne è debitore. Era per argomentare sul suo valore intrinseco. 
Il nucleo del nostro confronto sta in quel principio dello "show, don't tell" che è il leit motiv di tanta letteratura contemporanea, qui sono d'accordo. Difendo invece l'idea del potenziale di immedesimazione di tanta narrativa classica, come fai tu con le varie eroine che abbiamo amato in quanto donne, ma io vado oltre. Quello stile "registico", immediato, non ridondante, non eccessivamente descrittivo, lo ha ampiamente inventato anche Dickens. Tutte le prime pagine di "Grandi speranze" sono l'occhio di una camera che si muove, così come il nostro Manzoni nelle prime pagine del suo capolavoro è estremamente moderno, per non parlare del capitolo "Parigi a volo d'uccello" di Hugo in "Notre Dame de Paris". Mostrare E raccontare insieme, questo è stato il genio dei grandi autori classici, in mezzo, lo ammetto, a tanta narrativa che si limita a descrizioni infinite in cui non si avverte palpito alcuno. I grandi ci sono riusciti e ancora oggi riescono ad attraversare epoche e stili e a ripresentarsi come paradigmi di perfezione. 
Per rispondere alla tua domanda molto interessante, adesso. Ci provo. La differenza sta tutta nelle intenzioni dell'autore secondo me. Ogni autore contemporaneo si suppone abbia "attraversato" i classici, altrimenti non riuscirebbe a essere incisivo nella propria epoca. L'uomo dell'Ottocento è nettamente diverso dall'uomo del XX secolo. La letteratura - adoro questo aspetto - si nutre dell'epoca in cui si sviluppa. La sua madre ideale è la Storia. E allora l'uomo del XX secolo, immerso in un'epoca che ha visto gli orrori delle guerre mondiali, la crisi del positivismo, l'applicazione della scienza alla dissoluzione di ogni umanesimo, come può esprimersi se non attraverso una scrittura che di volta in volta è essenziale, cruda, diretta, ripiegata su di sé, depauperata di ogni virtuosismo? Lo scrittore oggi assomiglia allo scultore - è inevitabile un parallelo con l'arte - che non tira fuori dal marmo la vibrante umanità fatta di nervi e muscoli, ma lavora una materia più duttile, magari del ferro vecchio per ricavarne una forma grottesca eppure affascinante. Ecco, io amo questa forma, ma continuo a volgere lo sguardo anche e soprattutto alla mano del Bernini che affonda nelle carni di Proserpina, pur lasciandomi affascinare dalla rasoiata di Fontana. Il contemporaneo è necessariamente un lavorio per sottrazione, impossibile non amarlo, e te lo dice una che nella drammaturgia lavora incessantemente per sottrazione. In me, però, persiste quella fascinazione per alcune forme del classico, che ancora oggi riescono a "dialogare" con la parte più intima del mio essere lettrice. Spero di essere riuscita a rispondere. :)

Charles Dickens (1812 - 1870)

MARINA: Credo anch’io che l’intenzione dell’autore rifletta l’epoca in cui vive, non potrebbe essere altrimenti: raccontiamo la realtà in cui siamo immersi. Questo è sicuramente un elemento che sottolinea la natura della letteratura del passato rispetto a quella contemporanea. Volevo allargare l’analisi su un altro aspetto, che mi piace considerare pertinente.
Che ne dici di spostare un attimo l’attenzione sulla figura dello scrittore?
Un tempo, la letteratura era appannaggio di “pochi eletti”, si potrebbe dire. C’era più ignoranza, non tutti avevano la possibilità di studiare e le donne... beh, le donne sappiamo bene a quale ruolo fossero confinate. Le eccezioni erano scrittrici costrette a usare pseudonimi per riuscire a pubblicare le loro opere e, comunque, provenivano da famiglie benestanti, in seno alle quali potevano coltivare la passione per la scrittura. Scrivere era elitario, si potrebbe dire e gli scrittori erano intellettuali, interessati, quando anche coinvolti direttamente, alle vicende socio-politiche del loro tempo. Considero anche un’altra cosa: si scriveva per ispirazione, per sfogare una condizione personale (penso a Kafka), per denunciare le ipocrisie di certe classi sociali (Tolstoj), con poco interesse per il “destinatario” finale dell’opera: il lettore. Intendo dire che oggi avviene, quasi, il contrario: si pensa prima al pubblico, a cosa potrebbe piacergli e poi si scrive:  il boom del moltiplicarsi dei generi e dei sottogeneri letterari è un fenomeno moderno e testimonia questa tendenza. Va di moda il distopico? Se voglio  vendere devo inventarmi una storia ambientata in una società ipotetica in cui si senta odore di fine del mondo e so di ritagliarmi una possibilità di diventare scrittore. Ecco, forse la letteratura contemporanea concede più chances, è più accessibile: oggi, alla fine, chiunque può scrivere qualcosa e pubblicare.

LUZ:    Il discorso così posto è molto ampio e forse richiederebbe un approfondimento che renderebbe questo Caffè troppo lungo (!) Comunque sappi che la letteratura di consumo è un fenomeno esistente da sempre, anche se può sembrare inverosimile. Alla Facoltà di Lettere dedicarono alcuni percorsi proprio a questo aspetto dello scrivere per piacere al pubblico, imperante dall'Ottocento, ma originato da culture più lontane. Anche i giganti della letteratura classica producevano romanzi per piacere al pubblico, fatta eccezione per autori di nicchia come Kafka, che tu citi. È vera comunque anche la tua asserzione, perché di fatto oggi esiste una letteratura completamente asservita ai gusti del pubblico, forse neppure definibile "letteratura". E poi, innegabile il fatto che oggi tutti possano scrivere e pubblicare, un tempo non era possibile. Opportunità dell'era digitale. :) È stato un piacere, cara Marina, non resta che porre una domanda ai nostri lettori. 

MARINA:  Hai ragione. È un discorso che richiede tempo, anche perché gli spunti potrebbero essere ancora tanti. Allora, sai che facciamo? Vediamo se qualche suggestione arriva dai lettori del post, se qualcuno vuole aggiungere elementi che rendono evidente il confronto fra letteratura classica e letteratura contemporanea. Fermo restando che la nostra bella chiacchierata non voleva sottolinearne pregi e difetti, ma solo la diversa natura.

CI rivediamo al prossimo caffè.

55 commenti:

  1. Mica facile, venirne a capo.
    Provo a dire un paio di cose. La prima: la letteratura classica (Balzac, Tolstoj, Dickens, eccetera), aveva il centro dell’attenzione. Non c’era la concorrenza della Rete, delle serie televisive, del cinema. Era il romanzo che raccontava il Mondo, e solo il romanzo. Adesso, il romanzo è una delle voci (tra le più periferiche).

    L’avvento dei nuovi media ha ovviamente inciso anche sul modo di narrare, di rappresentare personaggi e ambienti. La Némirovsky resta folgorata dal cinema e decide di scrivere delle sceneggiature, che meglio si adattano a un pubblico che scopre il cinema. E il “Show, Don’t Tell” è anche figlio dei nuovi media che si impongono. I libri di Elmore Leonard, il Dickens di Detroit, sono di fatto sceneggiature: dialoghi strepitosi, descrizioni ridotte all’osso. Non è più una società che ha bisogno di pagine e pagine di descrizioni. Al centro c’è il personaggio, la sua crisi, il suo ripetuto collasso che si trascina tra guerre e totalitarismi. Il resto, pare poco interessante.
    (Ma esiste comunque un Cormac McCarthy che in "Cavalli selvaggi" fa descrizioni strepitose).

    Il fascino della letteratura ottocentesca, secondo me, sta nel fatto che quegli autori “prevedevano” quanto sarebbe accaduto. Prendiamo Balzac: lui vorrebbe essere un nobile, si indebita e si rovina per essere come loro. Ma non c’è nessuno come lui che fustiga di più proprio i nobili, che scodinzolano al denaro. Lui vedeva arrivare la valanga che avrebbe travolto l’Europa, un mondo che faceva diventare le persone “cose”, e che per questo era ben lieto di gettare al diavolo dignità e umanità per essere in sintonia con il “Nuovo Mondo” che stava arrivando. I totalitarismi del Novecento hanno reso evidente questo processo, ma il nostro vivere quotidiano, agli occhi di un Balzac o di un Dostoevskij o Tolstoj, è davvero libero? Oppure è solo una menzogna? Io credo che risponderebbero: è una menzogna che chiamate libertà. E se continuiamo ad apprezzare quei libri con carrozze e samovar, è perché lì, da qualche parte, percepiamo il momento, l’attimo, che ci ha senza rimedio portato a fare una scelta che forse, adesso, percepiamo fatale.

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    1. Grazie per la tua risposta, Marco.
      Proprio stamattina mi sono imbattuta in una descrizione di Trilogia della frontiera di McCarthy, e m'è venuta una gran voglia di leggerli tutti e tre. Coincidenze. Mi piace molto quanto scrivi riguardo al perché sia nato questo "show, don't tell", figlio di un mondo contemporaneo che non potrebbe concretizzarsi in altra forma.
      Mi piace anche percepire che tu non ritenga un limite che il romanzo classico sia strutturato in descrizioni.
      È la natura più genuina del romanzo quella di contenerne. I grandi maestri della descrizione, come Proust o Hugo, rappresenteranno per sempre questa prerogativa, del resto appartenente anche a certi registi come Scorsese, Eastwood, Kurosawa.
      L'aspetto dell'intuizione dei grandi romanzieri di un tempo è interessante. Mi viene in mente Zola, e in generale tutta la letteratura verista di secondo Ottocento. La volontà è quella di proporre una denuncia sociale ricorrendo alle forme della narrazione, ma rinunciando a una visione "romantica" della vita. La scrittura diventa ruvida, scabra, ci porta automaticamente a percepire luoghi e fatti.
      Sì, credo che i più grandi abbiano percepito l'avvento di un'era nuova, senza ottimismo alcuno. Ecco che il romanzo non diventa più intrattenimento, ma tutt'altro. La scrittura non ricorre a metafore, è immediata, pur conservando la ricchezza di una struttura classica. Eppure quel romanzo è esso stesso una rappresentazione metaforica di quel che sarà, di quel silenzio nel quale si concretizza l'attesa di qualcosa che non si preannuncia come buona, ma tutt'altro. La lungimiranza dei grandi romanzieri. Oggi chi sarebbe all'altezza di una cosa del genere? Ecco, fino ai grandi scrittori citati da Marina possiamo arrivare.

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    2. Venirne a capo...già, anche se, secondo me, non occorre mettere a paragone le due letterature per poter dire quale sia la migliore: la narrazione, lo stile, attraversano un’epoca e la rappresentano: le esigenze sono diverse, si guarda alle cose in modo diverso ed è vero che anche i mezzi a disposizione per fotografare una realtà siano, nel frattempo, cambiati o, meglio, si siano in qualche modo evoluti: un tempo c’era il romanzo, oggi puoi “raccontare” in mille modi. Adesso ci sono meno filtri per valutare ciò che si racconta, un tempo arrivavano a pubblicare solo i pochi che riuscivano a farlo. Questo non incide, comunque, sul valore di un’opera: i classici hanno solo il vantaggio di essere già stati premiati dal tempo.

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  2. Ovviamente i classici di oggi sono i contemporanei di ieri. Ciò che li distingue dagli altri "contemporanei di ieri" finiti nel dimenticatoio è la capacità di saper descrivere un'epoca, un modo di pensare, le emozioni e le esperienze umane nel loro aspetto più "eterno".
    Riguardo la selezione dei libri di ieri e di oggi che entreranno nell'olimpo dei classici letterari, l'unico dubbio che a volte mi coglie è: siamo sicuri che le selezioni siano state corrette? Il dubbio mi è venuto leggendo autori ormai cancellati come Ada Negri, e, per contro, autori ufficializzati dalle antologie che però non mi sembra che abbiano aggiunto granché al panorama letterario nazionale...
    Ovviamente è un interrogativo che lascia il tempo che trova, e che non cancella la conseguenza fondamentale di tale dubbio: non bisogna mai stancarsi di leggere nuovi autori, si può sempre scoprire qualcuno che ti piace, anche se non è noto, anche se non compare nelle antologie, anche se (in questo caso parlo di contemporanei) non ha mai vinto premi letterari e non è mai stato nella top ten dei best-sellers.

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    1. Da un certo punto di vista, la tua asserzione potrebbe essere valida, ma varrebbe anche quanto ha detto Eco a proposito dei classici: romanzi che sono sopravvissuti perché contengono in sé qualcosa di eterno.
      Ecco, a parte la mia fascinazione continua per il romanzo classico, amo moltissimo molti autori contemporanei ma posseggono quel senso dell'eterno che li renderà immortali?
      Saramago è un gigante, ma sarà ricordato perché ha profetizzato un'epoca in cui una pandemia ci ha resi gli uni contro gli altri? Perché ha narrato mirabilmente lo straniamento dell'uomo dinanzi alla paura? È già un classico, si può dire, è la motivazione del perché lo sia che mi pare... debole. Già preferisco uno Steinbeck, che scava nelle pieghe dell'animo umano mettendoci dinanzi a un dramma vero e alla sopravvivenza disperata di valori che si sfaldano dinanzi all'odio del più forte. Ecco, mi pare una motivazione più forte, più solida.

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    2. Alla fine è così: leggiamo per il piacere in sé di leggere, a prescindere dal fatto che ad affascinarci siano storie ambientate nella società dell’800 o nei giorni nostri. Quello che cerchiamo può trovarsi dappertutto, come quello che non cerchiamo può risiedere in un’opera che il tempo ha reso immortale. C’è già una letteratura contemporanea che ha le carte in regola per essere considerata un classico: Luana ha citato Saramago, ma ci sono Roth, Pamuk, la nostra Anna Maria Ortese e la lista sarebbe lunga.

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  3. Mi è sembrato di origliare la piacevole discussione seduto nel tavolino accanto. Io amo tutto, dai classici ai contemporanei (pochi). Non credo che vi sia una superiorità di epoca, semplicemente perché l'arte essendo soggettiva scatena sensazioni differenti a seconda della sfera percettiva di ciascun lettore.
    Aggiungerei solo due cose alla discussione. La prima è che sui classici occorre sempre considerare che sono il frutto della durissima selezione del tempo. A noi è giunto il succo più gustoso. In Italia nell'Ottocento vi erano decine se non centinaia di scrittori. Ma gli unici due sopra tutti sono stati Manzoni e Verga.
    Inoltre sullo stile differente, bisogna anche considerare che oggi oltre allo show don't tell, è fondamentale la soggettiva del narratore. La prima persona, l'onnisciente focalizzato, il narratore inattendibile o partecipe. Abbiamo sviluppato questa necessità di entrare dentro le storie, di far diventare il lettore partecipe della scena.
    In tal senso credo che la sfida futura della narrativa, sarà riuscire a coniugare storie importanti dentro uno stile avvincente. Ma questa è solo la mia sensazione.

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    1. Tempo fa mi capitò di parlare con un alunno molto intelligente e appassionato del perché la letteratura italiana del XIX secolo potesse vantare solo i romanzieri che citi fra i degni di essere menzionati. Ebbene, ciò è innegabile. La nostra letteratura dell'età moderna è carente, noi siamo stati bravissimi nel creare quella forma d'arte meravigliosa, ed esportatissima, della Commedia dell'arte, nel Cinquecento, che poi col tempo fu resa eterna in drammaturgie scritte. Poi un salto fino a Manzoni e Verga. Anche il Foscolo romanziere non riesce a essere grande quanto il poeta. Il resto è silenzio. Nel Novecento, poi, comincia a delinearsi finalmente una tradizione di scrittori.
      Abbiamo da sempre, e continueremo ad avere, la necessità di attingere a inglesi, francesi, tedeschi e russi, le cui letterature sono ricchissime di autori e talenti indiscussi. Lasceremo un Moravia a qualche esperienza narrativa a scuola, che ricordo senza particolari slanci. Ma forse saremo poi riscattati da una immensa Deledda, che secondo me è da riscoprire.
      Mi dona una riflessione la tua affermazione sul tipo di narratore. Il narratore contemporaneo vuole essere egli stesso il più delle volte al centro della narrazione. Fa di se stesso una parte non marginale del racconto, vuole essere lì dentro, nel meccanismo, vuole che il lettore lo riconosca nel meccanismo. Lo definirei un solipsismo, come amava dire il mio prof del liceo, un soggettivismo spinto. Fra i miei prossimi libri da leggere c'è la Trilogia di New York di Auster. Ecco, se lo ascolti in una delle interviste, ti rendi conto che in particolare quando sceglie la seconda persona per narrare - rara - lo fa parlando a se stesso. Questa la mia sensazione nell'ascoltarlo descrivere uno dei suoi romanzi.

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    2. Ecco, per esempio, a proposito di prospettiva del narratore, io amo poco la narrativa contemporanea di molti scrittori giovani (e non parlo solo di esordienti, ma anche di autori già collaudati) proiettati sulla prima persona: certe volte trovo questa narrativa tutta uguale, livellata su uno stile ormai condiviso perché considerato vincente. Del resto, io stessa, partecipando a concorsi letterari, mi sono resa conto di quanto la focalizzazione su se stessi sia preferita a una narrazione onnisciente o in terza persona e non sempre mi piace. Allora mi rifugio nei classici, nella visione aperta, multistratificata, nei tanti personaggi che interagiscono e nella descrizione oggettiva: mi danno più soddisfazione.
      Com’è uno stile avvincente? Tutto azione, cliffhanger, colpi di scena...?

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    3. Ogni autore è figlio del suo tempo. La letteratura classica fotografa uno stile narrativo che è sempre superato rispetto ai canoni contemporanei. Possiamo leggere Dumas o Dickens con piacere e amarli, ma se un autore moderno si azzardasse a scrivere con lo stile ottocentesco, sarebbe antiquato.
      Il passaggio dal narratore onnisciente classico, alle varie focalizzazioni, non è semplicemente una necessità d'immedesimazione dell'uomo contemporaneo nei suoi conflitti, o lo show don't tell un riprodurre la tecnica cinematografica, ma sono caratteristiche di un affinamento progressivo della tecnica scrittoria.

      Uno scrittore non ti può più dire: Anna era triste, ma te la deve mostrare quella tristezza con gesti, parole, situazioni. E Flaubert resta un grande, proprio perché Madame Bovary è modernissimo nel suo stile scrittorio.

      E qui, Marina, vengo alla tua domanda. Lo stile avvincente non è tutto azione e colpi di scena, ma la capacità di tenere alta l'attenzione del lettore.
      Oggi annoiare un lettore per cinque pagine significa perderlo.

      Lo scrittore di oggi è assediato, non tanto dal cinema, in quanto tutti gli autori del novecento si sono dovuti confrontare contro quel media, quanto dalla modernità che ruba tempo e concentrazione. E quel tempo spesso è consumato fra fra giochini, app, palestre, spritz, influencer e filmati vari su Youtube.
      Questo non significa che i libri spariranno, ma questo significa che gli autori devono compiere una nuova innovazione di stile. Occorre di più oltre allo show don't tell e alla focalizzazione.
      Gli autori di domani, se vorranno scrivere tematiche alla Delitto e Castigo o La Montagna Incantata, non potranno esimersi dal costruire la storia dentro una struttura narrativa che tenga il lettore incollato alla pagina.
      Altrimenti si rischierà di diventare come Anton Giulio Barrili, Vittorio Bersezio, Camillo Boito, Giacinto Gallina, Gerolamo Rovetta, Emilio De Marchi, Maria Virginia Fabroni o Cordelia. Chi sono?
      Alcuni degli autori più in voga della seconda metà dell'ottocento pubblicati dall'editore Treves. Ciascuno di loro pensava d’essere un autore importante, ma della loro generazione si salverà soltanto Verga e un po' Capuana.

      La cosa che amo di più come lettore, è l’avvicendarsi nella storia umana di stili e tematiche che dal passato, ci trasmettono ancora oggi l’anima vibrante di ciò che è umano. Siamo lettori di tutto, ma scrittori del nostro tempo.

      P.s. Marina. Riguardo al fastidio che provi per la prima persona tutta uguale. Ci sarebbe un intero commentone e già ho sproloquiato troppo. Però si potrebbe anche dire quale sia l'impatto degli editori e degli editor, nel suggerire all'autore di scrivere il romanzo in prima. A me, una editor importante, quando ha valutato i miei scritti ha detto più volte: ma se lo trasformassi in prima? Gli editori cercano questo. E io: no, rimango in terza, non ho bisogno della concessione degli editori. :P

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    4. Sì, lo so bene, ormai, cosa chiedono gli editor e gli editori: ne ho avuto una prova, come commentavo a proposito dei concorsi letterari. Se si vuole poco poco fare di testa propria o si deve scrivere qualcosa di veramente rivoluzionario o ci si autopubblica (e in quest’ultima riflessione non vuole esserci nemmeno l’ombra di una vena ironico/polemica). Nel senso che devi adeguarti allo standard e questo perché? Perché l’editore deve vendere e vende quello che piace e oggi piace l’io agente/pensante.
      In effetti... chi sono quegli autori sopra citati? Ne conoscessi uno, anche solo per sentito dire.
      Chissà quanti ne resteranno “in vita” dei tanti che oggi scrivono con la speranza di rimanere eterni. :)

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    5. "Il passaggio dal narratore onnisciente classico, alle varie focalizzazioni, non è semplicemente una necessità d'immedesimazione dell'uomo contemporaneo nei suoi conflitti, o lo show don't tell un riprodurre la tecnica cinematografica, ma sono caratteristiche di un affinamento progressivo della tecnica scrittoria". Qui non mi trovi d'accordo, almeno non con il termine "affinamento". Direi più "adeguamento".
      Ed è vero, oggi uno scrittore non potrebbe scrivere come un autore classico, ma non solo perché quello stile oggi sarebbe impensabile, anche perché... non ci sono le storie giuste.
      Un esempio: oggi si cerca di coniare nuove definizioni per un genere ibrido, indefinibile, come il "mainstream". Che è 'sto mainstream? Un confuso modo di percepire la realtà? Non potrebbe essere definito semplicemente "nuovo realismo"? Per non parlare di YA e compagnia bella.
      Termini mutuati dal mondo angloamericano che qui risuonano strani, fuori luogo, perché c'è davvero qualcuno in grado di fare del "nuovo realismo"? Come si racconta la realtà oggi? Io ho trovato solo qualcosa di veramente ben scritto, per esempio nella Elena Ferrante de "I giorni dell'abbandono". Oppure il Veronesi di "Caos calmo". Questi sono Romanzi con la maiuscola. Tutto, o quasi, quello in cui mi imbatto ascrivibile a questo genere mi pare come una minestrina insipida e tendo a scartarlo come genere.
      Autori come Camillo Boito o Emilio De Marchi, sono d'accordo, si sono scontrati con l'oblio perché non erano all'altezza dei loro contemporanei, ma non solo, semplicemente in Italia non si è favorito proprio il genere romanzo, perché certa tradizione in particolare romantica ha voluto caparbiamente dare alla poesia questa posizione egemone.
      Sulla prima persona. Raffinatissima scelta nel passato. Oggi effettivamente in romanzi mainstream che dir si voglia, risulta deboluccia come scelta, sì. Ma forse gli editori insistono con il passaggio alla prima per dare una forza al testo che diversamente non avrebbe.

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    6. Nota a margine. Io ho un buon ricordo di Camillo Boito. E non parlo solo di Senso, ma anche di altri suoi racconti. E non credo che pensasse di essere un autore importante: mi sembra che fosse molto consapevole di se stesso, infatti si diede all'architettura e alla museologia principalmente.

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  4. Romanzo classico o romanzo contemporaneo? Entrambi, con qualche precisazione. Tendenzialmente il romanzo classico che leggo è quello del XIX secolo, il secolo del romanzo. Questo significa pochi classici italiani - purtroppo! - visto che la cultura risorgimentale diffuse la convinzione che la forma più alta di letteratura fosse la poesia. Per quanto riguarda il romanzo contemporaneo, invece, tendo a buttarmi sulla narrativa di puro intrattenimento.

    Precisato ciò, sono consapevole del fatto che così come nell'Ottocento esisteva narrativa fast food di escapismo (in Inghilterra li chiamavano chap books), oggigiorno esiste una narrativa 'letteraria', solida, magari sperimentale, parte della quale resisterà al passare delle generazioni e verrà considerata classica.

    Un'osservazione sui generi letterari e le mode più o meno passeggere (vampiri, distopie, steam punk...) Credo che tutti si sia sensibili alle tendenze in una qualche misura, tanto oggi quanto nel passato. Capisco anche gli autori che, magari, tendono a scegliere un genere anziché un altro per fare presa sul pubblico. Ma non è tanto il genere il punto, quanto i topoi letterari, che sono gli stessi indipendentemente dal fatto che vengano usati in un romanzo storico o di fantascienza.

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    1. Posso chiederti chi, secondo te, sono gli autori di narrativa letteraria sperimentale, oggi?
      Sì, il connubio ideale parrebbe essere topoi e genere letterari: Twilight, per esempio. È bastato calare una classica storia d’amore dentro la realtà fantastica dei vampiri e il mix è risultato vincente. Oggi, per me, i tanti che amano scrivere puntano sul genere più apprezzato. È come se, prima ancora della storia che si vuole scrivere ci sia il dove collocarla per sperare che essa abbia successo. Prima il contenitore e dopo il contenuto, insomma.

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    2. Sai che ho ritrovato il termine "escapismo" leggendo questo tuo commento?
      E a questo proposito, è esistita una linea di pensiero che riteneva proprio Dickens un autore da narrativa di puro intrattenimento. I suoi contemporanei non percepivano il senso della letteratura "sociale", del servizio utile dato alle generazioni future di conoscere alcuni meccanismi sociali occultati bellamente dalle classi dirigenti. Ok, autore "romantico", ma ha narrato un'intera multiforme umanità. Basti pensare ai tanti personaggi del Copperfield per vederci un ritratto indimenticabile dell'epoca, fuori dai salotti in stile Austen, fra le strade delle periferie. Quel realismo che amo in un autore.

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    3. @Marina
      Immagino che Mark Z. Danielewski possa essere considerato tra questi. Il "magari" usato nel mio commento voleva esprimere il possibile dubbio, in effetti, perché non mi sono imbattuta personalmente in esempi. Casa di foglie, comunque, vorrei leggerlo.

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    4. È vero, “Casa di foglie” è un libro pazzesco! Lo sai, sono stata a PLPL nel dicembre scorso e quando l’ho visto e sfogliato sono rimasta affascinata e, nello stesso tempo, totalmente stranita: mi sono subito vista con un testo del genere tra le mani e, fino all’ultimo, sono stata combattuta se comprarlo oppure no. Ho desistito, ma ora vorrei averlo. Mi incuriosisce ancora. Però, se tutti gli autori dovessero essere “sperimentali” a tal punto, non lo so se gradirei sempre.

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    5. Mi è venuta una gran curiosità di leggerlo! Ho guardato in rete e si presenta come molto stuzzicante per la mia curiosità di spaziare fra autori a me nuovi. Questa struttura labirintica mi ricorda la regia di Luca Ronconi all'Orlando Furioso, quella che realizzò per il Festival dei due mondi di Spoleto negli anni Settanta. La fruizione dell'opera era "attiva" da parte dello spettatore, che doveva ruotare attorno alla scena, scegliendo di volta in volta dove posizionarsi. Ogni lato era autoconclusivo.
      Altra cosa: ieri sera ho iniziato Trilogia di New York di Paul Auster e... ma wow! Non mi aspettavo una cosa come questa. Ne parlerò più in là, non vedo l'ora.

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  5. Questa è una bella chiacchierata.
    Io non saprei cosa dire, nel senso... i classici non li amo, specie quelli russi o la letteratura "per ragazzi", però... Poe è il mio preferito, e lo cito perché lo avete citato.
    C'è differenza? Beh, Poe in poche righe (letteralmente) riesce a creare ansia. Una cosa che altri romanzieri horror contemporanei non sanno fare nemmeno con 500 pagine.
    Quindi... per l'immedesimazone, direi che dipende proprio dai nostri gusti e dalle nostre sensibilità.

    Moz-

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    1. Cosa non è riuscito a catturarti dei classici? Mi interessa in particolare questo aspetto.

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    2. Eppure, ti invito a leggere qualche classico: il panorama è vasto, non ci sono solo Tolstoj o Dickens. Secondo me, è un test che devi concederti. 😉

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  6. Per un simile tema servirebbe un banchetto di qualche decina di portate, altro che un caffé! Che dire? Io adoro i classici e negli anni fra il liceo e l'università ho letto quasi solo autori dell'Ottocento o del primo Novecento, spesso imbattendomi nei romanzi giusti nel momento sbagliato, infatti poi ne ho ripresi e rivalutati diversi, oltre ad aver riletto quelli già amati. Poi è arrivata la fase autodidatta, che mi ha portato ad alcuni autori contemporanei, però ho anch'io l'impressione che senza l'esempio delle pietre miliari non sarei riuscita ad apprezzare pienamente queste nuove voci, alcune delle quali destinate ad essere i giganti di domani.

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    1. Cristina, immaginavo esattamente questa risposta da parte tua. :)
      Fin da quando mi sono imbattuta nel tuo blog e poi un po' ti ho conosciuta attraverso il tuo scrivere, il tuo percorso di vita che hai condiviso finora, non avevo dubbio alcuno che fossi un'estimatrice del romanzo classico. Poi, come me, hai scoperto lo svelamento del romanzo contemporaneo e come me hai apprezzato e apprezzerai ancora tanta letteratura contemporanea. Mi piace il nostro "eclettismo", il nostro saper apprezzare le pagine di un Murakami pur restando fedelissime a Tolstoj. :)

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    2. A proposito di Tolstoj, i classici hanno anche il pregio di essere spesso dei bei mattoncini, mentre la letteratura contemporanea predilige forme più brevi, anche se Murakami va forte anche sulle lunghe percorrenze. Dei classici amo la precisione del racconto, le descrizioni, il loro lasciare poco all'intuizione, anche se da Svevo, Kafka e Pirandello le cose cambiano... Ed è lì, credo, che avviene il primo passaggio di consegne ai contemporanei, anche se forse il vero passaggio avviene con la narrativa degli anni '70.

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    3. Anch’io ho esperienza di letture fatte in momenti sbagliati, che poi ho rivalutato. Uno dei vantaggi dei classici è che si rileggono, come se avessimo il bisogno di andare a recuperare una saggezza che non abbiamo saputo riconoscere subito o che, al contrario, vogliamo ritrovare intatta. A pensarci, io che amo Murakami, per esempio, non ho mai pensato di rileggere certi romanzi letti ormai quasi vent’anni fa, mentre sono tornata per ben tre volte su Anna Karenina e altrettante su processo di Kafka. Non mi stanco mai. Ecco, forse, ho trovato un’altra chiave di lettura: i contemporanei non rilasciano lo stesso desiderio di tornare a leggerli più volte e sono pure più “snelli” rispetto ai classici.

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    4. Cristina, direi di più con il passaggio fra gli anni '50 e '60 alla beat generation.
      Il passaggio lì è netto, con autori come Kerouac, Ginzberg, Salinger. Ecco, quella letteratura non mi fa impazzire, a dirla tutta. O forse lessi Sulla strada nel momento sbagliato, a proposito di momenti non appropriati.

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  7. Queste dissertazioni sono sempre più dotte, care amiche, mi sembra di essere lì con voi ad ammirarvi mentre vi scambiate amorevoli stilettate letterarie :)
    Sono un po' più in sintonia con Marina, ma ovvio non è tifo, quanto immedesimazione. Amo i classici russi, così monumentali e psicologicamente circostanziati. Personaggi che chiedono attenzione e comprensione, a volte un po' di distanza. Nei classici trovo rifugio anch'io, anche se talvolta ne resto delusa. Di recente ho ripreso in mano J. Verne e ne sono rimasta profondamente delusa. A volte è più il senso del ricordo che nutre, piuttosto che il ricordo stesso. @Luz vince con Poe: mi ricorda mio padre. E tu @Luz capisci cosa intendo. Abbracci , filosofe :)

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    1. Io sono rimasta freddina rileggendo “Orgoglio e pregiudizio”. Ne avevo un ricordo bellissimo, mi aveva fatto sognare, letto verso i quindici anni; adesso, ho trovato la narrazione un po’ ingenua per le alte pretese che avanzavo. Forse certi libri classici meritano di essere letti nei momenti adatti, in modo da non intaccarne il valore con giudizi rinnovati. Non che adesso svaluti la letteratura della Austen, anzi, però so che non rileggerei altre sue opere amate in passato.

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    2. Elena, riprendendo in mano a cinquant'anni (nostra generazione) Jules Verne, sfido io a non restarne delusa. Sarebbe un po' come rileggere oggi Piccole donne. Anch'io non rileggerei la Austen che ho già "attraversato", perché di fatto resta fra le autrici che non prediligo. Amo invece Charlotte Brontë, di cui ho riletto dopo venticinque anni il meraviglioso Jane Eyre, monumentale, perfetto. Tutta un'altra storia rispetto alla leggerezza ironica di Jane Austen. Mi è congeniale la scrittura a più livelli, complessa della Brontë, non ci sono dubbi.
      Elena... filosofeggiamo, forse. Ma con grande ironia! :D

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  8. Io vengo dai classici, perché negli anni della scuola, quando molti leggevano di malavoglia, le letture proposte a scuola mi piacevano moltissimo, perciò le ampliavo a casa. Crescendo, però, i miei gusti hanno iniziato a seguire un percorso diverso, più orientato verso la narrativa contemporanea. Quindi non posso dire che i classici non abbiano un ruolo nella mia vita, ma solo che non mi piace l'idea di metterli su un altare di default, perché sono anche loro soggetti all'azione del tempo sul gusto dei lettori. Metto comunque volentieri insieme le Brontë e Murakami, Poe e Carver, Shakespeare e la Atwood, Melville e Vonnegut.

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    1. Brava, avremmo dovuto fare così in tanti, invece l’idea che certe letture facessero parte dello studio “subito” perché insegnato a scuola, ha pregiudicato la scoperta di opere pregevoli (metto sempre in campo “I Promessi Sposi”, ma ricordo che l’antipatia dichiarata dalla nostra insegnante d’italiano per Pirandello, ne ha reso odioso anche a noi alunni l’approfondimento.) La letteratura contemporanea ha il fascino della realtà che puoi riconoscere più vicina a te e io credo che, alla fine, si potrebbe pure non apprezzare certa letteratura classica se lontana dai gusti personali: io, per esempio, non sono mai riuscita a leggere Stendhal.

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    2. Trovo molto interessante accomunare romanzieri classici e contemporanei. Mi piace in particolare quando un autore odierno attinge all'ieri. Murakami che si riferisce continuamente alla beat generation, ma anche semplicemente quello che fa Auster in Città di vetro (il primo della Trilogia di New York che ho iniziato ieri), costruendo una narrazione perfettamente identica a Poe, di cui fa anche aperta citazione. Un trionfo dell'ego ma con sapienza narrativa.

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  9. Sono cresciuto con i romanzi classici, dei contemporanei ho apprezzato alcuni esperimenti come "L'Insostenibile Leggerezza dell'Essere" di M. Kundera che però ho letto molto tempo dopo che era passato di moda. Ecco, penso che uno dei limiti dei romanzo moderni che ci sono opere che vengono pompate dai media, dei quali ne parlano tutti per un periodo brevissimo e che tutti dicono di aver comprato...ma che poi (come le opere di Fabio Volo) alla fine lasciano poco. Certo, non è il caso dell'opera di Kundera però è indubbio che per un certo periodo era sulla bocca di tutti.
    Per quanto riguarda invece i miei generi preferiti, horror e fantascienza non mi faccio problemi, classici o moderni per me pari sono.

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    1. Dei due generi che citi, l'aspetto interessante è che ce n'è la versione classica e quella contemporanea. Ecco, sarebbe molto bello un confronto fra un romanzo horror e/o uno di fantascienza della tradizione e una delle ultime narrazioni del contemporaneo.

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    2. Certo, è vero che oggi i libri nelle librerie resistono pochissimo, c’è un mordi e fuggi in campo editoriale che fa paura: se vuoi rimanere a galla devi stare al passo con i tempi, pubblicare almeno un libro all’anno, far sì che il tuo nome sia spendibile sempre, essere insomma sempre nell’occhio del ciclone. Infatti, anche parlare male di un romanzo aiuta se serve a mantenerlo all’attenzione di tutti. Chissà se è più facile pubblicare e tentare la fortuna oggi o ieri.

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  10. Ai tempi della scuola ricordo che mi piaceva approfondire inserendo la lettura dei classici nella mia vita ben oltre l'obbligo dello studio, nel corso degli anni mi sono orientata più verso i romanzi contemporanei. Di recente però mi è tornata la voglia di leggere i classici, dovrei fare come Marina leggere un romanzo contemporaneo e un classico nello stesso periodo, del resto leggo già due libri contemporaneamente alternandoli...magari gustando una mousse al caffè 😀

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    1. Sai che non ho l'abitudine di leggere due libri simultaneamente? Mi è capitato per brevissimi periodi, ma ho preferito smettere per finire l'uno o l'altro. Poi sono una consumatrice di narrativa molto solerte nella "degustazione", non più di 50 pagine in un paio d'ore in media. :)

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    2. La lettura contemporanea di due testi mi serve a diversificare l’interesse, poi, magari, capita di concentrarmi più su una che sull’altra lettura, a seconda del mio grado di trasporto, ma in genere bilancio le attese. Mi piace: è come vedere un film impegnativo e sentire poi l’esigenza di distrarsi con qualcosa di diverso.

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    3. L'inquietudine mi caratterizza anche nelle letture, comunque ieri ho comprato Delitto e castigo in eBook così mi metto subito all'opera per la lettura in contemporanea con...

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  11. Non posso aggiungere altro a ciò che tu e Marina avete detto e che i vostri lettori hanno osservato attraverso i commenti. Mi limito a ringraziare per la bella e stimolante lettura!
    :-)

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  12. Mah. Alterno da sempre classici a contemporanei (e mi pare quasi di vederli gli autori "classici" da lassù brontolare che gli abbiamo affibbiato il termine di "classico" solo per non dirgli in faccia che sono "vecchi" :D ) e mettermi qui a disquisire su cosa sia meglio o peggio, coinvolgente o esteticamente sopraffino, raccontato o mostrato, mi par la "classica" domanda se sia nato prima l'uovo o la gallina. Perché mentre leggevo il vostro lungo dialogo, un nome mi campeggiava in testa, con una luce a neon intermittente (e solo perché è l'ultimo degli autori "classici" letti, scommetto che se avessi tempi di scavare in libreria troverei dell'altro): Thomas Hardy. Decisamente fa parte della letteratura inglese classica (se lo mettono vicino a Jane Austen e Shakespeare!) ma non scrive da "classico". Non ci sono lunghissime descrizioni ambientali e nemmeno panegirici filosofici su vita, morte, amore, matrimonio, eredità, dote, almeno non nella stessa misura dei suoi colleghi all'epoca. Forse non lo conosceva come "show, don't tell", ma la sua è una scrittura più diretta, densa di dialoghi, fatta e finita per Hollywood. Eppure, è un classico.
    Mi è tra l'altro appena arrivato Tess dei d’Urberville, sarà la prossima, o la seconda prossima lettura. ;)

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    1. Non volevamo fare una singolar tenzone attorno ai due generi, sia chiaro. Tanto più che entrambe amiamo l'uno e l'altro. E nelle nostre risposte abbiamo cercato di sintetizzare non un discorso di valore ma di "affinità", di "sentire".
      Non ho mai letto Hardy, come sai, ma ho amato molto sia "Via dalla pazza folla" (come ti dissi nella sua versione retrò in particolare, perché legato a un periodo in cui gustavo quei film con le mie zie) e mi sconvolse la struggente storia di "Tess dei D'Uberville". Sono certa che li leggerò entrambi, tanto più che sono stati rieditati dall'ottima Fazi. Ho un cugino che adora Hardy, praticamente ha letto tutto di suo ed è un lettore esigente. Quanto allo stile, concordo che faccia uso di una scrittura estremamente moderna per la sua epoca. Insomma, uno di quelli imperdibili. :)

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    2. Sì, in effetti non era un chi è meglio chi è peggio: sono semplicemente scritture che rispondono a esigenze diverse legate, ovviamente, a periodi storici diversi. Si evolve tutto: il pensiero resta (se no non avrebbero la fama di essere “classici”), ma le veste cambia. Notare le differenze non ha avuto alcuna pretesa da parte nostra, anche perché, da parte mia almeno, c’è l’opinione di una lettrice appassionata e basta, non di una studiosa, che potrebbe disquisire in un altro modo, più approfondito, più adatto.
      Nonostante pensi di avere letto e riletto molti classici, mi mancano diversi autori: non conosco Steinbeck, per esempio (e so che voglio leggerlo presto) e anche Hardy di cui parli. Magari, con la sua scrittura non canonicamente “classica”, all’epoca rappresentava lo scrittore “fuori dalle righe” di adesso, quello apprezzato proprio perché originale rispetto ai modelli di allora. Okay, aggiungo alla lista anche lui, ora sono curiosa.

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  13. Io devo dire che più sento parlare di show don't tell e più mi viene l'orticaria e più mi viene da rigettarlo. Se uno scrive bene, lo può usare come che no, e va bene lo stesso. Non mi piace quando quella tecnica viene innalzata come migliore di tutte: c'è chi è convinto di questo in maniera del tutto assoluta e sembra che uno scrittore non possa farne a meno, altrimenti scrive male.
    E questo significhebbe che buona parte dei classici scrivevano male. A me piace lo stile classico anche perché lo trovo più libero, meno assoggettato a regole di scrittura che mi sembrano diventate troppo invadenti e che spingono la scrittura ad avere uno stile cinematografico, se non addirittura pubblicitario. E infatti autori come Saramago secondo me se ne fregano di certe regole (che per carità nesusno dice che non ci devono essere) che diventan poi imposizioni.

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    1. Sono pienamente d'accordo con te. Nel mondo anglosassone - di preferenza quello americano - insiste sulla tecnica della scrittura come un ambito didattico vero e proprio, in cui lo show don't tell è diventato il paradigma. Se è vero che una buona scrittura non indulge in descrizioni pompose e superflue, è pur vero che una narrazione non può fare a meno della descrizione. In questi giorni di lettura condivisa di "La macchia umana" di Roth si sta riflettendo proprio su questo aspetto, perché di fatto Roth è pienamente uno di quelli che rispetta quel principio ma concede ampio spazio alle descrizioni. Non esiste la tecnica perfetta, ogni principio scolastico legato a "si scrive così e non così" crolla dinanzi al talento di chi sa sovvertire anche le più comuni norme.
      E concordo anche sulla libertà che traspare in chi, autore classico o contemporaneo, non si sente imbrigliato da regole e scrive assecondando un'attitudine.

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    2. Io non penso che la tecnica dello show don’t tell sia necessariamente quella che riesce a rendere più apprezzabile la narrativa, però noto che è una costante della letteratura contemporanea. Mi chiedo: quando una regola diventa tale? Quando ci si accorge che funziona ed è indubbio che fare parlare l’azione coinvolga molto il lettore, forse più di un linguaggio solo descrittivo. Resta sempre il fatto che bisogna saperlo fare: non perché il mostrare sia la regola, si deve usarla come obbligo per una buona scrittura. Mostrare male è anche peggio che dire in modo piatto. Che poi, attenzione, i classici che contano non sono mai piatti e c’è tanta brutta letteratura contemporanea; insomma, si generalizza per macro argomentazioni, solo per sottolineare come il tempo abbia lavorato anche sui gusti e sulle esigenze di scrittori e lettori (com’è giusto che sia, direi.)

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    3. Grazie ad entrambe per la risposta. Credo che quella tecnica sia diventata regola man mano che il linguaggio visivo è diventato sempre più preponderante e sembra che il lettore non possa essere catturato in altro modo.
      Ma non credo che quella regola preveda in realtà meno descrizioni, anzi, devo dire che a me le descrizioni fatte con quella tecnica mi sembrano pure eccessive. Quando leggo articoli che mettono a confronto show don't tell e tecnica tradizionale (non so neanche se si possa dire così), 9 volte su 10 preferisco la seconda, di solito è più asciutta, lascia spazio all'immaginazione e secondo me rallenta meno l'azione dell'altra, spesso impegnata a stimolare tutti i sensi, a volte troppo forzatamente.
      Come nei film, non è detto che più ti viene mostrato di una scena e meglio è, anzi, tante volte è proprio il contrario.
      Comunque, se uno scrive bene, può usare la tecnica che più gli aggrada e lo scritto sarà in ogni caso bello.

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  14. Arrivo tardissimo a commentare questo altro bellissimo post letto tempo fa, causa una sorta di gorgo lavorativo-universitario che mi ha inghiottito... :) Complimenti a entrambe per la squisita impostazione di questa rubrica. Mi piace molto perché sembra del tutto spontanea, invece è un lavoro di attenta scrittura e limatura.
    Per rispondere alla domanda, da adolescente mi sono nutrita di letture classiche, alcune imposte a scuola altre che ho scoperto io. Tra queste ultime, alcune sono state delle autentiche meraviglie. Se dovessi pesare con il bilancino le mie preferenze, penso che il piatto della bilancia penderebbe a favore della lettura classica. Apprezzo la letteratura contemporanea, ma, a parte qualche rara eccezione tra cui Murakami Haruki, non mi hanno dato le stesse emozioni delle storie considerate classiche. Allo stesso tempo condivido il fatto, come ha detto un altro commentatore prima di me, che questi autori siano il risultato di una dura selezione del tempo... e mi domando anche se non c'entri anche il fattore "fortuna", un elemento del tutto imponderabile. Chissà, magari al tempo di don Lisandér c'era un altro Alessandro Manzoni che è rimasto per sempre sepolto nell'oscurità. :)
    Aggiungerei che, forse, la distanza che può esserci tra il lettore e i classici dipende essenzialmente dallo stile personale e letterario. Per esempio i romanzi di Victor Hugo sono magnifici, ma pochi li hanno letti per intero perché sono infarciti di lunghissime digressioni. A noi quelle digressioni risultano indigeste, all'epoca era la norma.

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    1. Mi aggancio a questa ultima parte del tuo commento (grazie per averci letto, nonostante i numerosi impegni, Cristina). Ho seguito durante le settimane di quarantena (che per alcuni aspetti è stata provvidenziale perché ha fornito molto tempo supplementare) alcune trasmissioni di Umberto Eco sui classici. Fu Eco anche un grande conoscitore di Hugo. Ebbene, mi ha colpito molto proprio il suo pensiero riguardo alle lunghissime descrizioni del celebre autore francese. Nella visione di Eco, Hugo sapeva di essere un monumento della letteratura francese, ed era altresì perfettamente consapevole di stare realizzando lungo dissertazioni. Penso ad esempio al capitolo "Parigi a volo d'uccello", un trattato di topografia malgrado lui NON avesse mai visto Parigi da quell'altezza se non da carte diffuse all'epoca e neppure così dettagliate. La sua conoscenza perfetta della città lo porta a dedicare un intero lungo capitolo a Parigi. Eco cita invece il romanzo "Novantatré" di Hugo, ricordando il capitolo della descrizione di una indicazione stradale, ricchissima di riferimenti (si tratta di un personaggio che spiega all'altro come arrivare in un dato luogo). La lunghissima, e grottesca, descrizione - perché risulta impossibile che il personaggio ricordi l'indicazione - serve a un altro scopo, esattamente come quel capitolo della Parigi descritta in "Notre-Dame de Paris". È funzionale a far cogliere l'estensione della mobilitazione durante la guerra di Vandea, nei giorni del Terrore nella Rivoluzione. Eco poi aggiunge che è assai probabile che Hugo si aspettasse il salto delle pagine da parte del lettore, era già "incluso nel pacchetto". Perché non conta che il lettore compia il faticoso compito di seguire rigo per rigo la lunga descrizione, ma la guardi nel suo insieme, per cogliere il fenomeno tutto. Non trovi che sia geniale? Ecco, la letteratura classica riesce a stupire ancora adesso malgrado appartenga a un altro tempo, ad altre mentalità. Accade però esclusivamente SE lo scrittore possiede questa affinità con la scrittura, la conosca bene e la manipoli a suo uso e consumo, creando un'opera eterna.

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    2. Ciao prof.😛, approfitto per farti i complimenti: non c’è materia d’esame che ti freghi, ormai! 👏🏻👏🏻
      Secondo me è giusto approcciarsi alle due letterature con la consapevolezza di quello che esse rappresentano, in relazione a tempi, eventi storici, clima sociale... Io, invece, sai cosa mi chiedo? Se sia anche un problema di “distanza generazionale” (la voglio chiamare così), cioè i classici sono quelli e lo saranno sempre, ma chissà come la generazione nata nel terzo millennio si approccia alla lettura di Hugo (per citare l’autore da te richiamato), lontanissimo com’è dalla realtà in cui essa è calata. Cos’è per i nativi digitali un classico?

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    3. Il problema, Mari', te lo dico da insegnante, è che per i nativi digitali proprio il libro è "lo sconosciuto". Essendo la lettura un'operazione difficile a prescindere da qualsiasi cosa riservi, i ragazzi di ultima generazione tendono proprio a disconoscerla. Io insegno da circa vent'anni. Ebbene, ricordo con nostalgia i ragazzi che avevano 14 anni nel 2005, i NON nativi digitali, nati nei primi anni Novanta e per questo fuori dai linguaggi sotto molto aspetti rovinosi della falsa educazione digitale impartita fin da piccoli. Fino a quelli si arrivava, ovviamente non a tutti. Diciamo che su una classe di 20 alunni, una decina riuscivi ad acchiapparli. Oggi la percentuale è scesa. Ho 4-5 alunni seriamente interessati a leggere narrativa in classi dai 20 ai 23 alunni. Non vorrei essere arrivata a queste conclusioni, e vorrei tanto dire che il digitale è bellissimo-meraviglioso-fantastico. Da addetta ai lavori dell'alfabetizzazione sono costretta a dire invece no, no e poi no. Oggi si naviga a vista. Se non proponi un King a qualche riottoso di 13-14 anni, quello non ti legge nemmeno una pagina. Sbuffano annoiati, puoi anche inventarti una lezione alla Keating. In questo periodo ho una futura terza costituita da una quindicina in queste condizioni. Passi che strisciano, apatia, mentre in 5-6 sono entusiasti ed esigenti. Quelli giocherebbero a Fortnite 12 ore al giorno, molti lo fanno. E sarò brutale: la famiglia latita. Noi non possiamo fare miracoli. Tantissimi nativi digitali questo sono, lontani da qualsiasi idea di progresso, di bellezza, lontani dai sogni. Inventarsi strategie, fare lezioni dinamiche, vedere assieme film, andare a guardare l'arte da vicino, te ne puoi inventare di ogni. Moltissimi avranno sempre quegli occhi a mezz'asta e la manina sul cellulare. In questo "inferno dei viventi", per dirla alla Calvino, fai di tutto per salvare quei 4-5. Ecco, quelli sono i preziosi, i diamanti grezzi, il nostro tutto. E se pure a uno degli altri avrai fatto terminare "It" sarà comunque un traguardo tagliato.
      Perdonate lo sfogo, ma è l'amara realtà.

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    4. Purtroppo concordo, anche se non sono un’insegnante. Ho dei figli che, per fortuna, leggono molto, vuoi perché stimolati dai loro stessi interessi, vuoi perché respirano una certa aria in famiglia e hanno sempre visto me con un libro in mano. Talvolta gli esempi valgono più di mille insegnamenti. Ma in classe, i loro compagni non sanno cosa sia un libro o il piacere di leggerne uno, Terribile!

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