Non molto tempo fa, Michela Murgia, nella bella trasmissione di Augias su Raitre, dedicò il suo intervento a un "libroide", l'ennesima pubblicazione di Fabio Volo.
Mi piacque la parola, su Volo avevo letto decine di stroncature e assistito ai vessilli levati dei suoi estimatori e non ci fu bisogno di approfondire.
Libroide è un neologismo che descrive perfettamente il tipo di pubblicazione di cui stiamo parlando, ma per una definizione perfetta devo rifarmi al suo autore, Gian Arturo Ferrari.
Libroidi, quegli oggetti che dei libri hanno tutte le fattezze, sia fisiche, sia commerciali, sia propriamente libriche (dispongono di un autore, anche se a volte solo nominale, di un editore, di un copyright, spesso di un indice), ma dei libri non hanno l'anima. O, più umilmente, non hanno il capo né la coda, l'invenzione di una storia, il bene di un concetto, un autore vero.
In sostanza, ci riferiamo agli pseudolibri che occupano di solito una posizione ottimale in ogni libreria, in vetrina, surclassando i libri veri, che sono relegati a una posizione secondaria, di quelle che i lettori esigenti vanno a cercarsi perfino nelle latebre degli scaffali più irraggiungibili.
Il libroide, manco a dirlo, è un'invenzione tutta americana. Pare che il fenomeno di vendite che fecero impallidire perfino gli stessi editori risalga ai primi anni Novanta, in occasione della pubblicazione del libro di ricette della cuoca di Oprah Winfrey.
In poche settimane, salì in classifica fino a dominarne per molto tempo la cima, lasciando dietro di sé scrittori del calibro di McEwan, Auster e compagnia bella.